Torino città

TORINO : Chiesa di Sant’Agostino

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Storia e descrizione del sito:
Questa chiesa, già esistente nel 1047 e parrocchia nel 1368, era allora dedicata ai Ss. Giacomo e Filippo. L’edificio originario, eretto in stile romanico, era già di forme gotiche nel 1368 (possiamo supporre che avesse un aspetto non molto diverso dall’attuale S. Domenico o da altre chiese simili a Chieri o ad Avigliana) ed era dotata di un chiostro. Fu ricostruita ed intitolata a S. Agostino nel 1551, anno in cui venne anche edificato l’attuale campanile (che però alcuni critici vogliono Quattrocentesco); sotto il campanile venivano seppelliti i boia della città. Molto danneggiata da secoli di incuria, tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 venne totalmente rimaneggiata in stile eclettico dall’architetto Carlo Ceppi. All’interno, nel secondo altare della navata sinistra, è stato collocato un pregevole, per quanto frammentario, affresco quattrocentesco raffigurante l’Adorazione del Bambino, scoperto il 3 dicembre 1716 durante la demolizione della vetusta casa degli Agostiniani retrostante la chiesa.
Al fondo della navata sinistra è conservato uno dei rari esempi di scultura rinascimentale presenti a Torino, il sepolcro di Cassiano dal Pozzo di Reano, di forme ispirate a moduli franco-spagnoli.

Informazioni:
Tel. 011 4368833

Links:
http://www.archeogat.it/archivio/torinomedievale

http://www.museotorino.it/view/s/b78e3152db764b8ca5f6916477fbbc1d

Bibliografia:
GRUPPO ARCHEOLOGICO TORINESE, Guida Archeologica di Torino, Savigliano (CN), 2010, Terza Ediz., 1° vol., pp.113-114

Fonti:
Fotografie  GAT.

Data compilazione scheda:
20 novembre 2003 – aggiorn. a cura dei Soci GAT a ottobre 2009 e  marzo 2014

Nome del rilevatore e associazione di appartenenza:
Gabriella Monzeglio – Gruppo Archeologico Torinese

TORINO : Chiesa di San Domenico

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Storia del sito:
L’edificio di culto e le abitazioni dei religiosi hanno origine nella seconda metà del XIII secolo, con l’insediamento dell’ordine domenicano a Torino al seguito di fra Giovanni, proveniente dal convento milanese di S. Eustorgio (noto come Giovanni da Torino). Sebbene non si conosca la data precisa della loro fondazione, il primo documento che attesti l’esistenza di una famiglia domenicana in città risale al 1278. Il primitivo sacello era ad aula unica, disposto trasversalmente rispetto alla chiesa odierna: l’altare era collocato a est, verso l’attuale via Milano, mentre la porta principale era rivolta a ovest, verso il chiostro del convento: un muro laterale appartenente a questa prima costruzione, forse quello meridionale, venne alla luce all’inizio del secolo scorso nei pressi dell’attuale altare maggiore. La primitiva S. Domenico doveva quindi occupare solo l’area settentrionale della chiesa d’oggi.
Nel corso del XIV secolo l’intera struttura venne ricostruita e ampliata, probabilmente perché insufficiente per contenere i fedeli e il crescente numero di nuovi religiosi che emetteva i voti presso il convento: per consentire la costruzione di tre nuove campate che ne avrebbero raddoppiato la capienza, l’edificio subì una rotazione ad angolo retto assumendo l’attuale orientamento; l’ingresso venne quindi a trovarsi sul lato sud, su via San Domenico, com’è ancora oggi. La nuova chiesa in stile gotico, costruita in laterizi e attestata almeno dal 1334-1335, si presentava a tre navate, quella centrale più ampia e più alta, suddivise da pilastri a sezione polilobata legati da archi ogivali. L’edificio aveva una copertura a capriate a doppio spiovente in corrispondenza delle tre campate e delle due cappelle al termine delle navate laterali, mentre l’abside presentava fin da allora una copertura a volta e cinque finestre ogivali a feritoia. A questa fase corrisponde probabilmente la realizzazione del ciclo pittorico a decoro della cappella dell’Annunziata (il cui nome fu mutato in “delle Grazie” solo nel 1908).
All’esterno, sotto il tetto, il coronamento delle pareti era decorato con una fila di archetti pensili intrecciati, di cui restano alcuni tratti sull’abside. La piazzetta antistante l’edificio, allora utilizzata anche come cimitero, era presente sicuramente già dal 1335, quando è attestata la volontà di Giovanni Carossino dei Pelizoni di esservi seppellito. Nel 1351 i Domenicani acquistarono, dalla famiglia “de Pado”, la casa che sorgeva a ridosso della navata laterale destra e la demolirono per costruire una quarta navata verso la contrada di San Michele (poi Contrada d’Italia, ora via Milano). Le due navate destre furono poi demolite tra 1605 e 1682, per far spazio a un ambiente unico destinato alla Compagnia del Rosario.
Nel corso del XV secolo le navate laterali si arricchirono di altari: quelli dei SS. Antonio e Sebastiano nel 1436; prima del 1441 quello di S. Giacomo Apostolo; prima del 1469 quello di S. Maria Maddalena e S. Gregorio; prima del 1474 quello della Ss. Annunziata e SS. Vergini. Importanti rimaneggiamenti strutturali vennero intrapresi nel 1451, con l’innalzamento della cella campanari e, nel 1497, con la sostituzione del tetto a capriate con una copertura a volte e l’aggiunta di due nuove campate a sud. A seguito di questo ulteriore ampliamento l’edificio raggiunse le dimensioni attuali e la facciata venne a trovarsi in corrispondenza di quella odierna. La chiesa venne inoltre sottoposta a una revisione dell’apparato decorativo: in aggiunta agli affreschi delle cappelle e alle tele degli altari, anche le pareti della chiesa e le colonne furono arricchite da immagini policrome e stemmi gentilizi, uno dei quali è visibile nella navata sinistra. Nel 1516, nella cappella al termine della navata sinistra, quella dell’Annunziata, e nel vano abisdale, venne realizzato un soppalco in muratura che, collegando il convento alla chiesa, permetteva ai religiosi un accesso diretto al coro e all’area sovrastante il presbiterio. Tale struttura, che obliterò e in parte distrusse gli affreschi trecenteschi della cappella, venne rimossa solo nel 1776.
Il XVII secolo fu caratterizzato da rilevanti lavori di ristrutturazione: vennero rialzati di 60 cm i pavimenti, sia quello della piazzetta antistante che quello della porta principale, venne distrutta la primitiva finestra rotonda e se ne fece una più grande, bilobata. Inoltre, nel 1796, si ampliarono tutte le finestre della navata centrale, rimuovendo quelle gotiche costruite alla fine del XV secolo e aggiungendo un cornicione lungo tutto il perimetro esterno della navata. Dopo la parentesi napoleonica e il rientro dei domenicani in seguito alla Restaurazione, nel 1866 la chiesa fu interessata da un’ulteriore serie di lavori, attuati dagli ingegneri Noè e Benazzo e dai restauratori Pampirio e Gioda: le colonne furono scalpellate e ingrossate attraverso l’uso di calce, mentre la pavimentazione venne rinnovata per mezzo di grandi lastre di marmo bianche e nere. L’apparato pittorico non fu risparmiato da questi interventi: le pareti e le colonne vennero affrescate a fasce larghe, i costoloni ricevettero una decorazione a spirale, la volta venne dipinta di un cupo azzurro stellato.
Fu solo nel settembre del 1906 che iniziarono gli interventi di restauro e di ripristino veri e propri. Grazie all’operato di Riccardo Brayda e di Alfredo d’Andrade, la chiesa ritrovò in gran parte la fisionomia medievale perduta, se si esclude la navata laterale destra, troppo compromessa dai lavori di ristrutturazione eseguiti nel XVII secolo per poter essere ricostruita. Venne innanzitutto abbassato di 60 cm il livello della pavimentazione della piazzetta e della chiesa, riportandolo così alla quota originaria. Successivamente vennero rimossi gli interventi seicenteschi, ripristinati gli affreschi medievali superstiti, la ghimberga e il rosone della facciata, le finestre a sesto acuto, l’abside e le colonne interne. I restauri della facciata furono portati a termine alla fine del 1908. Per quanto concerne invece l’interno dell’edificio, gli interventi riguardanti le colonne, le navate e la cappella delle Grazie terminarono qualche anno più tardi, nel 1911.

LA CAPPELLA DELL’ANNUNZIATA (OGGI “DELLE GRAZIE”)
Nella primavera 1908, durante i lavori di restauro della cappella dell’Annunziata, collocata a sinistra dell’altare maggiore ed esattamente al di sotto del campanile tardogotico, tornò alla luce un’eccezionale testimonianza del medioevo torinese: si tratta dell’ unico ciclo, per quanto frammentario, di affreschi trecenteschi ammirabili a Torino .
Gli interventi di restauro vennero affidati a Giovanni Vacchetta, che, a causa del cattivo stato di conservazione del ciclo, lo riprese integralmente, ridipingendo gli antichi affreschi, ricalcandone le tracce superstiti, e ovviando alle lacune ispirandosi a modelli piemontesi, simili per epoca ed esecuzione. Il metodo seguito dal Vacchetta generò molti interrogativi riguardo l’effettiva necessità di un’integrazione così considerevole. Nel 1986 le pareti della cappella furono interessate da un risolutivo restauro, realizzato secondo criteri innovativi dalla ditta Nicola sotto la direzione di Giovanni Romano: dopo una serie di analisi scientifiche e un pazientissimo lavoro di indagine, furono riscoperte e ripristinate parti originali, senza tuttavia rimuovere le aree integrate nel 1909, là dove non ricoprivano strati più antichi. Oggi è dunque possibile cogliere il fascino del ciclo pittorico ammirandolo nella sua interezza, risultando tuttavia assai agevole distinguere le parti originali trecentesche da quelle integrate (che hanno colori più vividi).
La data di fondazione di questa cappella è incerta; si fa tuttavia risalire al XIV secolo, mettendo in relazione la costruzione della stessa con il donativo fatto da Filippina vedova Rogeri nel 1334. Sfortunatamente, non sono giunti fino a noi documenti inerenti la storia e le trasformazioni più antiche subite dalla struttura. Nel 1516 la cappella era stata soppalcata per consentire l’accesso dei religiosi, direttamente dal convento, su un ulteriore e più vasto tramezzo sovrastante l’altare, da cui potevano celebrare messa senza entrare in contatto con i fedeli. L’ingombrante sovrastruttura fu eliminata nel 1776, ma nel frattempo erano già stati prodotti danni irreparabili agli affreschi, in particolare quelli stesi sulle pareti ovest ed est; sulla prima venne quasi completamente distrutta la figura del Cristo pantocratore; sulla seconda si perse completamente traccia di un personaggio sostituito, nel 1909, da una Madonna assisa, mentre furono risparmiate le più periferiche figure di san Tommaso d’Aquino e offerenti. Uno spesso strato di calce nascose l’intero ciclo pittorico fino ai primi anni del XX secolo.

Descrizione del sito:
La composizione della “CAPPELLA DELLE GRAZIE” raffigura, nella fascia inferiore delle pareti, i dodici apostoli, in piedi, cinque per ciascuna parete e due nella parete di fondo ai lati della finestra. Le figure, che presentano parti ricostruite più o meno estese, sono divise le une dalle altre da colonne decorate a spirale e fregiate di base e di capitello. Lo spazio architettonico nel quale si inseriscono le figure è delimitato, nella parte inferiore, da una fascia decorata a losanghe alternate e, nella parte superiore, da mensole riccamente ornate. La parte sovrastante gli apostoli è ripartita in base alle tre pareti che delimitano la cappella, ognuna delle quali è caratterizzata da un preciso programma iconografico. Nella lunetta della parete ovest, a sinistra di chi osserva, la scena si presentava grandemente compromessa: del Cristo pantocratore, seduto e circondato dai simboli dei quattro evangelisti, rimaneva soltanto il volto e parte della mano destra, nell’atto di benedire. Nella lunetta della parete nord, meglio conservata, è visibile un’Annunciazione: l’angelo nunziante, inginocchiato e con le mani incrociate sul petto, e la Vergine, con le mani giunte in segno di preghiera, sovrastano una monofora. Sulla parete est, a destra di chi osserva, è invece raffigurata una scena di vita domenicana: san Tommaso d’Aquino, sulla destra, è in procinto di condurre un uomo e due donne, in abito patrizio trecentesco, al cospetto di un personaggio di cui non restava traccia e che si pensò trattarsi della Vergine, la cui immagine fu completamente ricostruita.
La datazione e l’attribuzione degli affreschi sono state per molto tempo oggetto di discussione: mentre si fanno risalire con certezza al decennio 1350-1360, non se ne conosce l’autore. La pittura trecentesca piemontese, per molto tempo, è stata studiata e considerata in relazione all’influenza delle sole maestranze francesi e lombarde. Il primo ad aver inserito in questo contesto un’altra possibile componente, quella del linguaggio del cantiere internazionale di Assisi, che si può ritrovare nella produzione figurativa del Piemonte, è stato Giovanni Romano; egli ipotizza che la formazione di questo ignoto “Maestro di S. Domenico” possa derivare da Giorgio dell’Aquila, un maestro toscano ampiamente documentato in Piemonte dal 1314 al 1348, il cui insegnamento ebbe eco fino alla fine del secolo, costituendo parte integrante della produzione figurativa piemontese e determinando l’avvio della produzione jaqueriana. Di esecuzione confrontabile con quella del ciclo trecentesco in S. Domenico sono alcuni affreschi, sebbene alquanto frammentari, della chiesa di S. Pietro d’Avigliana, nonché le miniature del Codice delle Catena in cui le rappresentazioni dei santi patroni di Torino richiamano, per la loro staticità e delicatezza, le figure dei dodici apostoli effigiati in questa cappella.

Risale alla fine del XV secolo un’immagine del beato Amedeo IX, staccata dal pilastro del chiostro sul quale era stata dipinta e trasferita nel terzo altare di sinistra nel 1615. L’affresco, restaurato nel 1978, viene attribuito al borgognone Antoine di Lonhy, attivo in Piemonte nella seconda metà del Quattrocento. Il duca Amedeo IX di Savoia, contemporaneo del Lonhy, morì nel 1472 e dunque l’opera, che sembrerebbe avere le caratteristiche del ritratto, dev’essere successiva a quella data.
Alla prima metà del XVI secolo risale l’affresco che raffigura l’”Elemosina di sant’Antonino da Firenze”, attribuito unanimemente allo Spanzotti e in origine collocato nella prima cappella sinistra, da dove venne strappato nel 1970 per essere collocato nella posizione attuale, quasi in fondo alla navata.

Informazioni:
Via San Domenico angolo via Milano ; tel. 011 5229711

Links:
http://www.archeogat.it/archivio/torinomedievale/percorsoTAPPE/15MONsandomenico.htm

http://www.cultorweb.com/SanDomenico/SD.html

http://www.museotorino.it

Bibliografia:
AA.VV. Guida Archeologica di Torino, volume I, Gruppo Archeologico Torinese, Torino, 2009, pp.133-140 e bibliografia relativa
Ferrua V. 1992; Il San Domenico di Torino 1909
La chiesa di S. Domenico in Torino,Torino,1981

Fonti:
Tratto da: AA.VV. Guida Archeologica di Torino, volume II, Gruppo Archeologico Torinese, Torino, 2009, pp.133-140
Fotografia in alto dal sito del Comune di Torino; foto in basso archivio GAT.

Data compilazione scheda:
20 /11/ 2003 – Scheda aggiornata a cura dei Soci GAT a novembre 2009 e a febbraio 2014

Nome del rilevatore e associazione di appartenenza:
Sylvie Cheney – Gruppo Archeologico Torinese

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TORINO : Castello del Drosso

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Storia del sito:
Sulla riva del Sangone, al Drosso, furono i monaci dell’abbazia di Staffarda ad impiantare all’inizio del Duecento una grangia. Sulla sponda destra del Sangone correva la “strada vecchia da Moncalieri a Rivoli”, attraverso la quale i mercanti astigiani diretti in Francia potevano aggirare Torino eludendo cosi il pagamento dei consueti pedaggi; la sua esistenza doveva perciò dare particolarmente fastidio alle autorità cittadine che, non potendo controllarla come avrebbero voluto, non perdevano occasione per disturbare quantomeno il regolare svolgimento del traffico. Nel 1334 l’abate di Staffarda, oberato dai debiti, fu costretto a vendere grange e terreni a Corrado di Gorzano per la somma di 12.000 fiorini d’oro. Successivamente nel 1339 il Gorzano cedette la proprietà a Enrietto e Bartolomeo Vagnone che abitarono il Drosso sino a tutto il XV secolo. I Vagnone trasformarono la grangia cistercense in un vero e proprio castello.
Carlo Gromis di Trana acquistò nel secolo scorso i lotti che ancora dividevano la proprietà del Drosso e restaurò l’intero castello.

Descrizione del sito:
Il castello è un edificio in mattoni a vista, a pianta quadrata, con tre piani fuori terra, raccolto attorno a una corte chiusa e completato da quattro torri angolari.
Unite al castello vi sono due cascine; una di esse, posta sul fianco orientale, conserva ancora oggi una torre di vedetta e presenta alcune murature a lisca di pesce, databili al XIII secolo.

Informazioni:
Strada privata al confine tra via G. Falcone e Strada del Drosso

Links:
http://www.museotorino.it/view/s/62c55ea36d3a46bfb41eef64813d411f

https://www.youtube.com/watch?v=QirHmBAGxHY Riprese aeree.

http://www.parks.it/

Bibliografia:
AA.VV. Guida Archeologica di Torino, volume II, Gruppo Archeologico Torinese, Torino, 2009, p. 145
BONARDI C., Dai catasti al tessuto urbano e Castelli e dimore patrizie del Torinese fra Medioevo ed Età moderna in “Torino tra Medioevo e Rinascimento, 1993, pp. 267-304.
LUPO M., I secoli di Mirafiori, Ed. Piemonte in Bancarella, Torino, 1985

Fonti:
Fotografie tratte dal sito del Comune di Torino

Data compilazione scheda:
26/10/2009 – aggiorn. febbraio 2014

Nome del rilevatore e associazione di appartenenza:
Carlo Vigo e Livio Lambarelli – G.A.Torinese

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TORINO : Casa Romagnano

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Storia del sito:
Casa Romagnano (detta anche “casa Armissoglio”), una delle più significative testimonianze dell’edilizia civile nella Torino medievale, è un edificio le cui fasi costruttive principali si collocano tra la fine del XIII e l’inizio del XVI secolo; conserva tuttora quell’aspetto nobile e solenne che doveva contraddistinguerla in passato, malgrado i vari e drastici interventi operati nel tempo sull’intera struttura. La casa deve il suo nome all’omonima famiglia, tra le più potenti nella Torino medievale, che pare avesse qui la sua dimora. Durante il restauro ottocentesco, il Brayda trovò alcune formelle con il motto della famiglia Romagnano (EN UN) e una decorazione analoga a uno dei simboli che orna il simbolo araldico del casato (un ramo con pigna); ciò determinò l’attribuzione dell’edificio alla nobile casata.
Nel XVI secolo le finestre del primo piano furono sostituite da quelle rettangolari a crociera, anch’esse con modanatura in cotto, ma dal disegno molto più semplice. Il palazzo venne poi sopraelevato in epoca barocca, probabilmente sul finire del XVII secolo; guardando la facciata su via Mercanti è possibile scorgere le travi del tetto originario che occhieggiano tra il secondo piano e il terzo. Nella stessa epoca furono chiuse tutte le finestre antiche e ne furono aperte di nuove rettangolari, dall’aspetto anonimo. Furono anche rasate tutte le parti sporgenti che decoravano la facciata, in particolare le cornici marcapiano, poi evidenziate e parzialmente ricostruite9 durante i restauri ottocenteschi.
Tra 1891 e 1894 la casa fu teatro di un laborioso intervento di restauro operato sotto la direzione dell’ingegnere Riccardo Brayda, di cui l’autore lasciò ampia relazione. L’intervento restituì la possibilità di leggere in pianta e nell’elevato il complesso, comprendente il cortile porticato e le finestre ogivali e crociate sulla via, in parte riccamente decorate da formelle in cotto che caratterizzano fortemente l’edificio. .Una delle finestre a crociera che nel XVI secolo sostituirono quelle gotiche al primo piano venne ricostruita dal Brayda; una delle finestre ogivali del secondo piano, che era stata tamponata malamente, venne riaperta completamente ed è ora tornata al suo antico uso. Alcuni dei soffitti con mensole in legno e altri elementi ai quali il Brayda accennava nella sua relazione di restauro, sono ancora esistenti. Dal 2001, purtroppo, sono invece state rimosse le formelle con il motto dei Romagnano (due integre e una frammentaria che erano state murate sulla parete che prospetta sul vicolo, vicino alla nicchia orizzontale.
Nei primi anni del XXI secolo l’edificio, che versava nuovamente in condizioni di degrado, è stato ulteriormente restaurato, con risultati assai apprezzabili.

Descrizione del sito:
La casa possiede due prospetti collocati ad angolo: il principale e più scenografico, su cui si aprono quattro belle finestre in cotto sottolineate dalle tracce dei marcapiano, si affaccia su via dei Mercanti; l’altro fa capo a un vicoletto chiuso, parallelo a via Barbaroux, dal quale si accede al portone carraio. Su questo fronte sono stati evidenziati alcuni lacerti di muratura medievale in ciottoli disposti a spina di pesce, listati da file di mattoni, nonché tracce di una finestra a tutto sesto e di una nicchia.
L’edificio mostra i segni di successivi interventi nel tempo, riassunti nella facciata su via Mercanti. La fase più antica, alla quale si può far risalire una porzione di bifora, è senz’altro anteriore al XIV secolo. Al secondo piano si possono notare due finestre ogivali con ricche modanature in cotto a motivi di cardi e foglie di quercia, secondo una moda che si diffonde nella seconda metà del Quattrocento. Segno evidente dell’agiatezza del committente, il cortile dell’edificio, al quale si accede direttamente dal passo carraio, era adornato da un elegante chiostro porticato, di cui restano sei arcate superstiti con colonne dal capitello cubico. Già recuperato dal Brayda alla fine del XIX secolo, anche se ancora non valorizzato a sufficienza poiché tamponato da strutture che ne impediscono la completa leggibilità, si tratta dell’unico esempio torinese oggi esistente di porticus su colonne al piano terreno, tipologia documentata anche per le scomparse case del Vescovo e Tavella.

Informazioni:

Links:
http://www.archeogat.it/archivio/torinomedievale/percorsoTAPPE/33MONromanano.htm

http://www.museotorino.it/view/s/5b566682653441deb63e001f3c2f7616

Bibliografia:
AA.VV. Guida Archeologica di Torino, volume II, Gruppo Archeologico Torinese, Torino, 2009, pp.125-126

Fonti:
Testo tratto da: AA.VV. Guida Archeologica di Torino, volume II, Gruppo Archeologico Torinese, Torino, 2009, pp.125-126
Fotografie GAT.

Data compilazione scheda:
20 novembre 2003 – Scheda aggiornata a cura dei Soci GAT a ottobre 2009 e a febbraio 2014

Nome del rilevatore e associazione di appartenenza:
Soci – Gruppo Archeologico Torinese

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TORINO : Casa del Senato

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Storia del sito:
La cosiddetta “casa del Senato”, edificio che pare incredibilmente dimenticato o ignorato dalle istituzioni, presenta una serie di caratteristiche che ne fanno uno dei testimoni più insigni della storia di Torino antica. Ammirato da illustri medievisti alla fine del XIX secolo e parzialmente restaurato da uno di essi (Riccardo Brayda) intorno al 1890, ritratto in tele e acqueforti ottocentesche e novecentesche, oggi il palazzo in questione, non gode nemmeno di una titolazione univoca, essendo chiamato, come si è detto, “casa del Senato” o, meno frequentemente, “palazzo longobardo”. Le stesse guide turistiche si trovano in comprensibile imbarazzo nel dover illustrare un edificio del quale in genere non sanno molto e di cui non riescono a spiegare il cattivo stato di conservazione ai visitatori sbigottiti, onde per cui questo importante frammento della città pre-sabauda viene il più delle volte evitato dai canonici percorsi di visita.
Per comprendere la grande mole di dati racchiusa nelle scure pareti di questo edificio, prendendo coscienza della necessità che si faccia qualcosa per salvarlo, occorre procedere a un rapido esame della costruzione e delle sue pertinenze. La facciata del palazzo si trova orientata lungo un decumano romano (oggi ricalcato dalle vie Cappel Verde e Corte d’Appello): questo fatto fa presumere che la fondazione dell’edificio risalga ai primissimi secoli del medioevo, quando ancora resisteva la rigida scacchiera stradale di Augusta Taurinorum, dal momento che gli edifici circostanti hanno orientamenti che invece nulla hanno in comune con l’antico tracciato romano, tipici di un periodo assai posteriore; nel cortile adiacente si trova un muro di epoca romana (con riadattamenti medievali) disposto ortogonalmente all’edificio, ulteriore dimostrazione del fatto che la casa del Senato sorge sull’antica maglia urbana pre-medievale.
Anche i blocchi lapidei impiegati per la costruzione del portone sono romani e vengono sovente definiti “di reimpiego”, cioè si suppone che questa sia una loro collocazione secondaria; peraltro, in funzione di quanto appena detto circa l’allineamento del palazzo, si può anche pensare che tali blocchi non si siano mai mossi dalla loro sede originaria (occorrerebbe effettuare un’analisi delle fondamenta) e che siano ciò che resta di un importante edificio pubblico riutilizzato e riedificato in epoca medievale; considerando che ci troviamo a ridosso della piazza del Municipio, un tempo il foro romano, si può dunque ipotizzare che il palazzo ospitasse la curia (qualche volta si cita invece impropriamente il prætorium), ossia il centro di comando della colonia romana; il motivo per cui si pensa a un edificio pubblico, al di là delle considerazioni sull’ubicazione, sta nel fatto che le abitazioni popolari di Augusta Taurinorum erano generalmente realizzate con tecnica mista e non interamente in pietra, meno che mai, poi, utilizzando grandi blocchi.
La “casa del Senato” ha fondamenta molto profonde, indizio di un’antichità che potrebbe affondare le radici almeno nell’alto medioevo: oltre alla cantina e al tipico “infernotto” di molte case torinesi, l’edificio possiederebbe un terzo piano sottoterra; alcuni autori danno per certo che si trattasse delle prigioni della curia romana.
L’edificio è anche detto “palazzo longobardo”, in quanto si ritiene che possa essere stata la sede dei duchi torinesi durante la dominazione longobarda; ad avvalorare questa ipotesi è un insieme di considerazioni. Anzitutto nella zona immediatamente a ovest del giardinetto di piazza IV Marzo, all’angolo tra le attuali via Tasso e via Berchet, si trovava, ancora nel XVIII secolo, la chiesa di S. Pietro in curte ducis, detta anche “S. Pier del Gallo” per via dell’evangelico animale effigiato sulla stessa; la titolazione della chiesa porta il nome di uno dei santi più venerati dai Longobardi, insieme a san Michele, e il “duca” di cui si parla è, appunto, il duca longobardo (prima dei Savoia, gli unici duchi a dominare Torino furono quelli longobardi; la chiesa di S. Pietro in curte ducis è citata a partire dal 1102, mentre i Savoia divennero duchi solo nel 1416);a quanto detto bisogna aggiungere che, nel momento in cui i Longobardi divennero i nuovi padroni della città tardoromana (VI sec.), era procedura ordinaria l’insediamento della struttura dirigente nel precedente luogo di comando, la curia, appunto. La vicinanza all’area più sacra della città (il complesso episcopale preesistente al duomo attuale) e a una porta urbica di cui assicurarsi il controllo (l’attuale porta Palatina che, ricordiamo, era un vero e proprio edificio fortificato e non un semplice varco nelle mura) potrebbe aver giocato un ruolo non secondario nella scelta di insediarsi in questa zona; si tratta di congetture, ma avvalorate da modalità insediative comuni nel panorama altomedievale dell’Italia che si andava via via “longobardizzando”.
In ultima analisi, la valutazione dei dati diretti e indiretti di cui disponiamo circa questo edificio suggerisce la seguente ipotesi. Ci troviamo di fronte a una costruzione che affonda le sue origini nell’età romana, probabilmente di rilevanza pubblica, come dimostrerebbero i blocchi in pietra (se in giacitura primaria), l’ubicazione a ridosso dell’antico spazio del Foro e la continuità nei secoli successivi come luogo di una certa importanza. Pare anche plausibile che i Longobardi vi abbiano fissato dimora e che per questo abbia conservato a lungo, nella memoria collettiva cittadina, il ruolo di edificio di rango elevato, come suggerisce l’altezza inusuale della costruzione. Ben inteso, mancano dati ulteriori, di tipo archeologico o documentario, che avvalorino ulteriormente queste ipotesi.

Descrizione del sito:
Nonostante la casa del Senato sia dunque uno degli edifici più antichi (e insigni, si direbbe) della città, e nonostante i recenti restauri del 2011-2012 che hanno interessato la porzione al numero civico 17, la parte sinistra della sua facciata (corrispondente al numero 15) si sta ancora lentamente sbriciolando; per quanto sembri assurdo, questa parte di edificio – di altra proprietà – non è stata mai interessata da restauri. Dal nudo paramento in laterizio del palazzo si affacciano una finestra gotica e due a crociera; altri resti di finestre medievali ammiccano sulla zona sinistra della parete, tra gli antichi mattoni consunti e rivestiti da una patina di smog. Al primo piano dell’edificio, sulla destra, si trova ciò che rimane di una cornice lobata che un tempo ospitava un affresco (ancora visibile intorno al 1950); la parte superiore della cornice è crollata alla fine dello scorso secolo, nel mutismo più generale. Incredibilmente, i restauri del 2011-2012 non hanno ripristinato questa interessante testimonianza, che oggi appare come una sbavatura sulla parete.
Un rozzo portale definito da blocchi in pietra, probabili elementi di reimpiego da qualche edificio di epoca romana, dà accesso a un piccolo cortile. Alcune finestre ad arco acuto si aprono sulla facciata (solo una evidenziata dai restauri ottocenteschi) e ci informano che già nel basso medioevo (XIII-XIV sec. circa) l’edificio contava quattro piani fuori terra; questo dato, da solo, denuncia l’importanza della costruzione, poiché a quel tempo in genere le case torinesi (domuncule) non superavano un piano d’altezza, raggiungendo i due o tre piani quando si trattava di abitazioni di famiglie di rango (domus, palacia ). Come testimoniato da più fonti, inclusa la veduta della città a opera del Caracca datata 1572, gli edifici tenderanno a crescere solo dal XV secolo in poi. Sembra quindi che questa costruzione, a partire dall’età romana, attraverso l’epoca longobarda per giungere in pieno periodo medievale, sia rimasta una sorta di punto di riferimento urbano resistente alle demolizioni. Le finestre a crociera (dette anche “guelfe”) risalgono alla fine del XV o all’inizio del XVI secolo, quando una gran parte di dimore torinesi, non necessariamente di matrice pregiata, vennero “modernizzate”. Probabilmente alla stessa epoca, sebbene da alcuni ritenuto un’aggiunta seicentesca, risale il loggiato dell’ultimo piano, molto simile a quello rinvenuto e riaperto nel 2002 nella vicina casa del Pingone (via Porta Palatina ang. Via Basilica).
Da molti decenni, peraltro, manca all’appello una torre scalare, un tempo affacciata sulla corte interna, di cui rimangono solo testimonianze documentarie della fine del XIX secolo (un bel quadro di Francesco Garrone,custodito nella Galleria d’Arte Moderna di Torino) e qualche rilievo degli anni ’50, quando venne demolita e l’intero assetto interno dell’edificio radicalmente riplasmato; la moderna “torre” che svetta a fianco dell’edificio medievale è un’integrazione del tutto arbitraria realizzata nel 2011-2012.
Se la parte sinistra della facciata non cadrà a pezzi nell’attesa, la casa del Senato è comunque destinata a subire nuovi restauri, prima o poi.

Informazioni:
Piazza IV Marzo, 15 e 17

Links:
http://www.archeogat.it/archivio/torinomedievale/percorsoTAPPE/11MONcasasenato.htm

http://www.museotorino.it/view/s/0d064b1645f14b418c5bed1e5b2f2130

Bibliografia:
AA.VV. Guida Archeologica di Torino (terza edizione), volume II, Gruppo Archeologico Torinese, Torino, 2010, pp.117-122 e bibliografia relativa

Fonti:
Testo in gran parte tratto da: AA.VV. Guida Archeologica di Torino, volume II, Gruppo Archeologico Torinese, Torino, 2010, pp.117-122  Fotografie archivio GAT.

Data compilazione scheda:
20 novembre 2003 / 2 novembre 2009 /Scheda aggiornata a cura dei Soci GAT  a febbraio 2014.

Nome del rilevatore e associazione di appartenenza:
Fabrizio Diciotti; Anna Ferrarese – Gruppo Archeologico Torinese

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TORINO : Casa del Pingone


casaPingone

Storia del sito:
La cosiddetta “casa del Pingone”, il cui aspetto attuale rimanda ai secoli XIV e XV, è un complesso di edifici circoscritto dalle vie Egidi, della Basilica e Porta Palatina: si tratta di uno dei pochi esempi di edilizia privata di origine medievale ancora visibili a Torino. Il toponimo deriva dal fatto che qui, secondo una tradizione però poco documentata, abitò il barone Filiberto Pingone, umanista rinascimentale vissuto alla corte di Emanuele Filiberto di Savoia nella seconda metà del Cinquecento e autore della prima storia della città, l’”Augusta Taurinorum”. Dopo un lungo periodo di degrado, la casa è stata oggetto, nel 2002, di un restauro che ne ha recuperato la funzionalità cercando di salvaguardare gli indizi della sua lunga storia. L’intervento ha consentito di scoprire numerosi particolari architettonici e strutturali che erano stati del tutto obliterati col passare dei secoli, tanto che, prima dei lavori, la casa appariva nell’insieme piuttosto malconcia e anonima; l’unica nota di colore, oltre al giallo ocra delle pareti, era data dalla torre in mattoni – peraltro anch’essa in pessime condizioni di conservazione – che spuntava oltre il tetto.


Descrizione del sito:

Oggi la casa del Pingone è strutturata come un palazzo a più corpi di fabbrica, sviluppato intorno a un cortile e dotato di una complessa stratigrafia muraria. Sul lato di via Porta Palatina sono stati recuperati cospicui resti di finestre di epoca quattrocinquecentesca, a crociera e a sesto ribassato. L’ultimo piano è caratterizzato da un loggiato dotato di archi a tutto sesto, di aspetto cinquecentesco, tamponato probabilmente in epoca barocca e tornato alla luce con gli ultimi restauri. Il primo piano, sul lato che affaccia su via Porta Palatina, ha riservato ai restauratori un’altra sorpresa: dalla rimozione delle sovrastrutture è emerso un grande soffitto cinquecentesco a cassettoni, dipinto con decorazioni fitomorfe policrome, mentre le pareti hanno restituito estese tracce di una coeva, o forse di poco posteriore, decorazione a “grottesche”. Il colore rosso che caratterizza l’edificio è stato scelto dai restauratori in base all’analisi degli intonaci originari, che avevano una tonalità simile. Non bisogna infatti dimenticare che, come dimostrano gli affreschi che raffigurano le città medievali, gli intonaci delle abitazioni e dei palazzi di rappresentanza erano spesso molto colorati, anche se noi oggi siamo abituati a vederli con pietre e mattoni a vista.
Il complesso conserva, inglobata nelle strutture, l’unica torre medievale (campanili esclusi) rimasta a Torino, antecedente al XV secolo; essa è il nucleo attorno al quale è poi cresciuto l’edificio attuale. Ne si può ancora scorgere la sommità, dotata di merli a coda di rondine ravvisabili sugli angoli e tra le finestre attuali. Incapsulata, in epoca postmedievale, da una copertura che trasformò l’ultimo piano in stanza, mascherando il suo aspetto originale, è stata riattata durante gli ultimi restauri. Il lato est è stato liberato dal tetto che vi si appoggiava, realizzando una piccola terrazza scoperta; sono stati restaurati ed evidenziati merli e beccatelli, rivelando anche il fregio “a triangoli” che sul lato esposto alle intemperie, verso ovest, è pressoché scomparso. Guardando la torre da via Egidi si nota, a destra, un breve tratto murario realizzato in mattoncini disposti a lisca di pesce, d’epoca bassomedievale.


Descrizione dei ritrovamenti:
Gli scavi archeologici, contestuali ai lavori di restauro, hanno messo in luce le fondazioni medievali, che vanno a poggiare direttamente sul sedime di periodo romano, insistendo in parte sull’area stradale antica e reimpiegandone alcuni basoli, provenienti con ogni probabilità dagli adiacenti cardo maximus (via Porta Palatina) e decumanus minor (via della Basilica), come materiale edilizio; i resti romani (compreso un tratto di fognatura) e medievali (muri, pavimentazioni e un pozzo) rinvenuti nei locali sotterranei sul lato prospiciente via della Basilica sono stati consolidati e conservati. Inglobate nelle murature del piano terra, in un locale prossimo a via Egidi, sono state evidenziate alcune epigrafi frammentarie di epoca romana.

Infine, assai curioso e anch’esso di età romana è un grosso frammento di mattone sesquipedale, rinvenuto durante le operazioni di cantiere, sul quale è stato tracciato, prima che venisse cotto, un tavoliere di gioco: si tratta di un “mulino” all’interno del quale campeggia la sigla “AB+”, dall’interpretazione incerta.

Informazioni:
Via della  Basilica angolo via Porta Palatina


Links:
http://www.archeogat.it/archivio/torinomedievale/percorsoTAPPE/08MONpingone.htm

http://www.museotorino.it/view/s/a0c69c8b7567438ca396390ecca56c28

scarica pdf: Chi era il PINGONE?

Bibliografia:
AA.VV. Guida Archeologica di Torino, volume II, Gruppo Archeologico Torinese, Torino, 2009, pp.129-131 e allegata bibliografia

Fonti:
Fotografie archivio G.A.T.

Data compilazione scheda:
27/10/2009 – aggiornata 05/2014

Nome del rilevatore e associazione di appartenenza:
Soci – Gruppo Archeologico Torinese

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TORINO : Casa Broglia

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Storia e descrizione del sito:
(Tratto da: AA.VV. Guida Archeologica di Torino, volume II, Gruppo Archeologico Torinese, Torino, 2009, pp.123-124)
La prima testimonianza documentaria dell’esistenza della casa risale al 1323, quando il cittadino torinese Pietro Broglia la registrò al catasto. L’edificio fu rinnovato tra il XV e il XVI secolo, periodo in cui raggiunse una fisionomia simile all’attuale. Il paramento murario in cotto è ornato di fasce modanate nei marcapiano, nelle finestre a croce degli ordini superiori, nelle arcate a sesto ribassato del pianterreno; queste ultime, oggi trasformate in vetrine, un tempo erano probabilmente dotate di apertura “zoppa”, il che consentiva l’esposizione delle merci su un tavolato appoggiato al parapetto. Vi ebbe sede l’albergo della Corona Grossa, ancora esistente nel XIX secolo e risalente perlomeno al XV secolo (quando era detto hospicium signi corone; in questo periodo la struttura comprendeva una parte riservata all’abitazione della famiglia del proprietario, l’albergo vero e proprio, alcune botteghe e altri edifici6. Sul cantone omonimo venivano affissi gli ordini e i bandi cittadini; era anche detto “cantone delle grida”, poiché il banditore leggeva ad alta voce a uso dei molti analfabeti.
La costruzione andò degradandosi durante i secoli XVII e XVIII, seguendo la sorte della maggior parte degli edifici medievali torinesi: i portici furono tamponati, sparirono tamponati, sparirono le crociere dalle finestre, furono rasate le fasce marcapiano, vennero rimodellati gli spazi interni (eliminando così lo schema funzionale e compositivo dell’hospicium) e l’ultimo piano subì ritocchi che causarono la perdita dellefinestre originali. Nel XIX secolo l’edificio, seppure riportasse ancora tracce evidenti del suo antico passato, si trovava in condizioni di scarsa leggibilità.
La casa venne restaurata da Riccardo Brayda a partire dal 1890; le finestre e le arcate dei portici vennero ripristinate, i marcapiano ricostruiti, le buche pontaie riaperte, mentre le parti mancanti furono reintegrate con «mattoni in cemento convenientemente calcati da quelli ritrovati» e reimpiegando materiale ricavato dall’edificio stesso (per l’esattezza, dalle buche pontaie e dai riempimenti delle antiche finestre). Il paramento murario venne lasciato con i laterizi a vista, com’era nell’uso dei restauratori dell’epoca e come ancora oggi si presenta, sebbene quasi certamente la casa fosse, a suo tempo, intonacata con colori vivaci. Nulla si potè fare per recuperare una pittura già in cattive condizioni di conservazione, probabilmente d’origine quattrocentesca, raffigurante una Madonna, nello smusso d’angolo al primo piano; la cornice in cotto venne comunque ripristinata, così come la vicina campana (in seguito rimossa) che, nei secoli passati, chiamava i fedeli a pregare dinanzi alla sacra immagine, ritenuta miracolosa.

Informazioni:
Via Porta Palatina  angolo largo  IV Marzo e via Tasso 13. In parte oggi adibita a ristorante, tel. 011.436.55.62

Links:
http://www.archeogat.it/archivio/torinomedievale/percorsoTAPPE/09MONcasabroglia.htm

http://www.museotorino.it/view/s/08ba72446e8848e6823d2980d327177e

Bibliografia:
AA.VV. Guida Archeologica di Torino, volume II, Gruppo Archeologico Torinese, Torino, 2009, pp.123-124

Fonti:
Fotografie GAT.

Data compilazione scheda:
20 novembre 2003 – scheda aggiornata a cura dei soci GAT a Ottobre 2009 – febbraio 2014 – maggio 2020

Nome del rilevatore e associazione di appartenenza:
Soci – Gruppo Archeologico Torinese

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TORINO : Armeria Reale

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Descrizione del sito:
La Galleria dipinta da Claudio Francesco Beaumont, cuore dell’Armeria Reale aperta da Carlo Alberto nel 1837, è stata riconsegnata alla città dopo il restauro ed il riallestimento delle collezioni – entrambi finanziati dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Torino – che avevano comportato anche la chiusura al pubblico del museo nel 2004 e per quasi tutto il 2005.
L’obiettivo e’ stato quello di recuperare l’allestimento ottocentesco, smantellato negli anni sessanta e settanta del Novecento in favore di un approccio filologico ai materiali che aveva snaturato l’antica impostazione dell’Armeria, dal carattere fortemente scenografico. Le straordinarie armi e armature, in maggioranza restaurate per l’occasione (compresi i notevoli pezzi ottocenteschi in stile), tornano dunque a risplendere nelle vetrine originali, in gran parte progettate da Pelagio Palagi, nelle spettacolari panoplie sulle ampie pareti, sugli alti basamenti che rendono i guerrieri simili a statue, e in sella ai dodici cavalli, sontuosamente bardati come ormai più nessuno ricordava.

Storia del Museo:
L’Armeria Reale è da collocarsi tra le più importanti collezioni del genere nel mondo per la bellezza ed il valore degli oggetti che ne fanno parte. Di recente è stata riaperta al pubblico grazie ad alcuni interventi di restauro dei locali e delle infrastrutture.
Il primo riordino delle collezioni risale al Maggiore Angelo Angelucci che compilò il secondo catalogo della raccolta nel 1890. Durante la sua direzione il Maggiore Angelucci arricchì l’Armeria di una parte della collezione archeologica da lui precedentemente raccolta presso il Museo Storico Nazionale dell’Artiglieria. Egli infatti ritenne più coerente la collocazione di parte di quel materiale, consistente in armi, nella nuova raccolta che si stava costituendo.

Descrizione delle collezioni:
Secondo il catalogo di Angelucci del 1890 tutte le opere esistenti nel museo sono divise in diverse classi e serie, ognuna dedicata ad una tipologia di oggetti, ancora in uso oggi.
Le prime tre Serie A. A’. e A’’. sono dedicate alle armi “classiche” in pietra, in bronzo e in ferro.
La Serie B. è dedicata alle armature complete a piedi e a cavallo, la Serie C. alle parti di armature, la Serie D. alle attinenze del cavallo, la Serie E. agli elmi, la Serie F. agli scudi, la Serie G. alle armi bianche lunghe, la Serie H. alle armi bianche corte, la Serie I. alle armi da botta, la Serie J. alle armi in asta, la Serie L. alle armi lanciatoie, la Serie M. alle armi da fuoco lunghe, la Serie N. alle armi da fuoco corte, la Serie N’. alle parti e accessori delle armi da fuoco, la Serie O. alle bandiere, la Serie P. ai modelli, la Serie Q. ad oggetti diversi, la Serie S. alle armi e agli oggetti appartenuti a Carlo Alberto, la Serie T. alle armi ed altri oggetti della collezione di Vittorio Emanuele II, la Serie U. alle armi e altri oggetti della raccolta di Umberto I. Nel Primo supplemento manoscritto al Catalogo Angelucci vengono aggiunte la Serie K. dedicata alle armi della prima guerra mondiale, la Serie K’. dedicata alle armi della seconda guerra mondiale e la Serie R. dedicata alle armi e altri oggetti appartenuti a Vittorio Emanuele III.

Descrizione del materiale esposto:
Le armi antiche, ricomprese nelle Serie A, A’ e A’’, sono nuovamente visibili dopo un’accurata catalogazione ed anche un adeguato restauro, nella Galleria Beaumont (vetrina 11).
Diamo qui una descrizione di questo materiale indicandoli con la catalogazione dell’Angelucci ed utilizzando anche la descrizione fattane dallo stesso:
Parte superiore:
– A’9: Elmo proveniente dal Friuli;
– A’10: Elmo di tipo corinzio trovato nel 1820 in un sepolcro dell’isola di Sant’Antioco (Ca). E’ ben conservato nella parte superiore, nel nasale, e nei guanciali; manca soltanto di parti della gronda, a destra. Tutt’intorno si notano i pernetti di bronzo che dovevano servire a tenere a posto all’interno il cuoi od altro materiale per renderlo più comodo. Collocabile fra la fine del VII ed il VI sec. a.C.;
– A’11: Elmo etrusco, trovato negli scavi di Ercolano. Ha sul coppo un foro a forma di triangolo che è la sezione di una lama di spada ad un filo, che forse potrebbe essere stata la causa della morte del guerriero che la portava;
– A’12: Elmo rinvenuto nel Friuli;
– A’27, A’28, A’29: Gambiere provenienti da Sant’Antioco (Ca) e Ercolano (Na), collocabili fra il VI ed il IV sec. a.C.;
– A’30, A’31: Gambiere trovate nel Friuli insieme agli elmi A’9 e A’12;
– A’46: Spada italica proveniente dal Friuli;
– A’48: Punta di lancia lunga cm. 32. Ha una costola da ogni parte a mezzo cono. Proveniente da una tomba dell’isola di Sant’Antioco (Ca);
– A’50 e A’56: Lance provenienti dal Friuli.

Parte inferiore:
– A’1, A’2, A’3: Scuri o accette in bronzo a margini rialzati, provenienti dalla Sardegna, collocabili fra il bronzo antico ed il X sec. a.C.;
– A’4, A’5, A’92: Scuri in bronzo con orecchie, sporgenti da ciascuna parte per metà della lunghezza o poco più, nelle quali veniva incastrato il manico, collocabili al X-IX sec. a.C.;
– A’6: scure d’arme (in bronzo), proveniente da scavi della Dalmazia; è un’arma non comune e di foggia nuova, conserva ancora le bave del getto e sembra pertanto non sia mai stata usata;
– A’7: Bipenne trovata in Sardegna;
– A’8: Bipenne trovata a Pollenzo;
– A’13: elmo apulo corinzio trovato in una tomba nella necropoli dell’antica Ordina (Fg), esplorata nell’agosto del 1874. Databile alla prima metà del IV sec. a.C.;
– A’14: Cintura trovata in una tomba a Ordina nell’agosto del 1874 insieme all’elmo A’13, agli schinieri A’32 e A’33 e alle spirali A’24;
– A’15: Gancio trovato a Pompei;
– A’16: Gancio proveniente dall’Italia meridionale;
– A’17: Gancio proveniente dai dintorni di Bari;
– A’18: Gancio proveniente dai dintorni di Bari;
– A’19: A’20, A’21: Ganci trovati nei dintorni di Napoli;
– A’22: Falera ritrovata a Ordina negli scavi del 1874;
– A’23: Spirali;
– A’24: Spirali binate trovate in una tomba a Ordona nell’agosto del 1874 insieme all’elmo A’13, alla cintura A’14 e agli schinieri A’32 e A’33;
– A’25: Spirali binate trovate in una tomba scavata a Ordona il 14 gennaio 1875 insieme alla lancia A’54;
– A’26: Spirale binata trovata nei dintorni di Napoli;
– A’21, A’33: Schinieri trovati in una tomba a Ordona nell’agosto 1874 insieme all’elmo A’13, alla cintura A’14 e alle spirali A’24;
– A’34: Braccialetto a nastro spirale trovato negli scavi di Ordona;
– A’35 e A’36: Bracciali a spirale trovati nell’Italia Meridionale;
– A’37: Bracciale;
– A’38: Bracciale proveniente dai dintorni di Napoli;
– A’40: Spada sarda. Lama con uno spigolo smussato, nel mezzo, lunga m. 1.140 e con manico m. 1,250. Il manico è gettato con la lama, ha l’elsa diritta e l’impugnatura è un prisma a base di rombo che all’estremità si biforca;
– A’41: spada sarda;
– A’42: Frammento di spada sarda;
– A’43: Spada del tipo di quelle trovate nelle palafitte dei laghi svizzeri e nella Danimarca. La lama, lunga m. 0,520 (col manico m. 0,670) ha la forma di “foglia di salice”, con costola nel mezzo arrotondata e terminante in punta, fiancheggiata da due filetti paralleli da ciascuna parte. La lama è separata dal manico al quale è fissata con due perni. Il manico è affusolato e diviso in quattro parti da tre coppie di tondini intagliati. Il pomo è fatto a foggia di mandorla con due branche alle estremità, donde il nome di “manico ad antenne”. Databile fra il IX e l’VIII sec. a.C.;
– A’44: Spada italica trovata nelle province meridionali. La lama ha dei solchi longitudinali che ne alleggeriscono il peso senza diminuirne la solidità. Databile al IX-VIII sec. a.C.;
– A’45: Spada apula trovata in un sepolcro dell’antica Venosa (Fg). Manca il manico, che poteva essere di legno o di avorio, sul quale si fermava la lama con tre perni dello stesso metallo;
– A’47: Ambone di scudo trovato in un sepolcro della necropoli di Ordina (Fg) il 21/01/1875. E’ di una sola lamina di bronzo. Ha un diametro di cm. 31 e si compone: di una fascia piana larga cm. 8 con tre giri di forellini sul contorno, che servivano per fissarlo sul cuoio dello scudo, e nel mezzo di essa dodici borchie a segmento sferico; di un cono tronco terminante in superficie curva alto cm. 4,2; di altro cono tronco del diametro di cm. 2,4 alla base e cm. 1,1 alla sommità, alto cm. 3; di un disco orizzontale del diametro di cm. 4,5; ed infine di un cilindretto verticale alto cm. 3,5 e del diametro di cm. 0,9. La lamina è grossa 2 mm. L’anello serviva a fermarlo sul mezzo dello scudo, che doveva essere di legno. Ascrivibile fra la fine del IX e la prima metà dell’VIII sec. a.C.;
– A’49: Lancia trovata in Sardegna;
– A’51: Lancia trovata a Pesto;
– A’53: Lancia trovata in una tomba scavata a Ordona il 21 gennaio 1875, insieme all’umbone A’47;
– A’54: Lancia trovata in una tomba scavata a Ordona il 14 gennaio 1475, insieme alle spirali A’25;
– A’55: Lancia trovata in una tomba scavata a Ordona nel 1874;
– A’57 e A’58: lance trovate in Sardegna;
– A’59: Lancia trovata nei dintorni di Roma;
– A’60, A’61, A’62, A’63: Lance trovate in Sardegna;
– A’64: Lancia trovata in una tomba a Durgali (Sardegna);
– A’67, A’68, A’69, A’70, A’90: fibule spiraliformi o ad occhiali e di diverse dimensioni. Si compongono di due dischi di un solo filo di bronzo ravvolto intorno a se stesso in senso opposto. Nel centro di ciascun disco è un cono tronco di bronzo, talora anche di ferro con un perno, che, passando per il centro del disco, è ribadito su una lastretta, lunga poco meno dei due dischi uniti insieme, che è ripiegata da una parte per formare, prolungandosi, l’ardiglione elastico, e dall’altra il gancetto dove entra l’ardiglione. Queste specie di fibule trovano riscontro nel tipo meridionale di Hallstad e negli ornamenti a spirale ungheresi e serbi; è comune nelle nostre province meridionali: Furono rinvenute nella necropoli di Ordina (Fg) nel 1875. VIII sec. a.C.
– A’ 78, A’79, A’80: Morsi trovati presso Roma;
– A’81: Staffa scavata a Senorbi(Sardegna);
– A’87: Stilo rinvenuto nei pressi di Roma;
– A’91: Bracciale trovato negli scavi di Ordona;
– A’93, A’94: Elmi acquistati all’asta Amilcare Ancona (1892);
– A’95: Trapeza etrusca acquistata come scudo all’asta Amilcare Ancona (1892);
– A’96: Scure, dono Carbonelli (1901);
– A’97: Punta di lancia, dono Carbonelli (1901);
– A’98: Pugnale, dono Carbonelli (1901);
– A’100: Spada donata da Battista Mosca (1902);
– A’101, A’102, A’103, A’104, A’105, A’106: Sei asce a margini rialzati, provenienti da Avigliana. Antica e media età del bronzo;
– A’ 107: Punta di lancia, proveniente da Avigliana; media età del bronzo. Lunghezza cm. 17,5, diametro collo cm. 2,2, apertura alare massima cm. 3,4;
– A’ 88: Frammento di insegna romana, propria delle Legioni, proveniente da Autum. Rimane la tabella rettangolare con la scritta S.P.Q.R. da una parte e LEGIO. VIII. Dall’altra; sotto resta la gorbia per inastarla e sopra un frammento dell’ultima parte dell’insegna. E’ possibile trattarsi di una recente imitazione;
– A’’1: Spada apula in ferro a mo’ di foglia di salice, trovata in un sepolcro di Ordona (Fg). La lama, che è intera e sulla quale vi sono avanzi del fodero di legno, si prolunga a formare la croce ed il codolo che porta ancora i perni onde vi era fissato il manico. E’ lunga cm. 39,5 e col manico cm. 49,5. VI sec. a.C.
– A’’2: Spada romana con lama di ferro ad un filo, lunga cm. 49 terminante a foglia di salice, molto guasta dalla ruggine. Manico in bronzo, con testa d’ariete e quattro scanalature trasversali per facilitare l’impugnatura. Provenienza sconosciuta.

Vetrina 7:
– da A.1 a A.4: scuri di selce;
– da A.6 a A.7: mazzuoli-scuri di pietra arenaria;
– A.8: martello-scure di pietra arenaria;
– da A.9 a A.11: scalpelli di selce.

Vetrina 8:
– A. 5: scure di pietra verde;
– da A.12 a A.14: scalpelli di selce;
– da A. 15 a A.20: lance di selce;
– da A.21 a A.24: frecce di selce;
– A. 25 e A.26: frecce di ossidiana;
– da A.27 a A.31: pugnali di selce;
– A.32 e A.33: coltelli di ossidiana;
– A.34: matrice di ossidiana;
– A.35: lancia di selce.

Alla Rotonda
– A’89: Un cimelio è esposto nella prima sala cosiddetta Rotonda e trattasi di un ariete di una galea romana. E’ un cimelio a testa di cinghiale ripescato nel porto di Genova nell’anno 1597.

Informazioni:
Tel.: 011 543889 Info: 011 5641729 ;  email: armeriareale@artito.arti.beniculturali.it

Links:
https://www.museireali.beniculturali.it/armeria-reale/

http://www.comune.torino.it/musei/elenco/armeria.shtml

http://www.museotorino.it/view/s/ee1e3ab8a840447d9fe2d934d2b4aed2

Bibliografia:
Angelo ANGELUCCI: Catalogo dell’Armeria Reale – Tipografia Editrice G. Candeletto, Torino 1890
Paolo VENTUROLI: Arma Virumque Cano … – Le armi preistoriche e classiche dell’Armeria Reale di Torino – Umberto Allemandi & C. , Torino 2002

Data compilazione scheda:
29/01/2006 – aggiornamento febbraio 2014

Nome del rilevatore e associazione di appartenenza:
Feliciano Della Mora – Gruppo Archeologico Torinese

TORINO : Anfiteatro romano

anfiteatro

Descrizione del sito:
L’unico edificio pubblico di Augusta Taurinorum di cui si abbia pieno riscontro archeologico è il teatro, mentre per gli altri sinora ci si è dovuti limitare alla formulazione di ipotesi. I numerosi studi e ritrovamenti del passato, sovente non supportati da metodologie scientifiche di indagine, oggi risultano solo parzialmente utilizzabili. Per contro, le ricerche effettuate negli ultimi decenni, alcune delle quali tuttora in corso, offrono contributi sempre più rilevanti, soprattutto per quanto concerne l’articolazione e l’organizzazione degli spazi interni o prossimi alla città, quali, ad esempio, la definizione ipotetica del rapporto tra parte pubblica e privata di circa 1 a 10 su un totale di 72 insulae. Ne sta emergendo un quadro sempre meno frammentario di pianificazione e di sviluppo urbanistico, in prevalenza riferibile ai primi due secoli dell’impero, che trova piena corrispondenza nella realtà storica, politica ed economica del Piemonte romano del medesimo periodo.
L’ipotesi prevalente si riallaccia ad una consuetudine, quella di ubicare gli anfiteatri romani in posizione marginale rispetto all’abitato, sovente anche al di fuori delle mura (in risposta, si presume, ad una molteplicità di esigenze pratiche tra cui quella di evitare il congestionamento della città in occasione degli spettacoli), ma di facile accesso e, quindi, nelle vicinanze di una via di transito principale.
Sull’anfiteatro di Augusta Taurinorum si possiedono alcune testimonianze letterarie, concentrate soprattutto nei secoli XVI e XVII: dal giurista Guido Panciroli, che dichiara di averne viste le rovine, allo storiografo Emanuele Filiberto Pingone che, a proposito della sua ubicazione, parla anche di un lago circondato da piccole alture. Questa seconda notizia farebbe presupporre, secondo il Grazzi, che “l’anfiteatro avesse sfruttato la situazione originaria del terreno, a valloni, allagatisi in assenza di manutenzione”. Peraltro due autori cinquecenteschi ne ricordano il degrado e la distruzione: il Maccaneo e il già citato Pingone. All’inizio XVI secolo, il Maccaneo, compiendo un evidente (quanto giustificabile, considerate le conoscenze dell’epoca) errore storico , ne attribuisce la distruzione ad Annibale, mentre il Pingone sostiene che i Francesi, dopo la conquista di Torino del 1536, rasero al suolo tutto ciò che si trovava fuori dalle mura, anfiteatro compreso.
Tutta la documentazione storiografica citata è comunque concorde nel testimoniare che l’anfiteatro torinese sorgesse nell’area extramuranea meridionale oltre la Porta Marmorea, vale a dire la porta romana meridionale, ancora esistente nei primi decenni del XVII sec.
Tuttavia, l’esito degli scavi archeologici, condotti nel 2004/2005 nel corso della realizzazione di un parcheggio sotterraneo, ha definitivamente smentito l’ipotesi – da molti e a lungo condivisa – della sua ubicazione nella zona all’incirca corrispondente all’attuale piazza San Carlo.
Quanto alla documentazione cartografica, gli espliciti riferimenti all’anfiteatro risultano assenti o quantomeno imprecisi. In particolare, sebbene molto nota, non è attendibile la pianta del XIX sec. (in “Turin et ses curiosités” di Modesto Paroletti, 18) che rappresenta la città e i borghi extraurbani così come potevano presentarsi agli inizi del XV sec. e che riporta, a sud-est della Porta Marmorea, il disegno di un anfiteatro caratterizzato da un’improbabile forma circolare. Similmente, la possibile presenza di parte delle sue murature in una veduta di Torino della fine del XVI sec., oggi conservata all’Archivio Storico della Città di Torino e già citata dal Promis nel 1869, sarebbe motivata, ancora secondo il Grazzi, da “un intento didascalico e non realistico”.

L’area della presumibile ubicazione dell’anfiteatro è stata più precisamente circoscritta dai soci del GAT tra il 2012 e il 2013, in base a suggerimenti cartografici non espliciti ma comunque significativi (cfr. in blbiografia e link web). Si ritiene possa coincidere con quella attualmente occupata dall’ex Arsenale militare (ora Scuola di Applicazione e Istituto di Studi Militari dell’Esercito Italiano), tra via Arsenale e via Arcivescovado, dunque a sud-ovest dell’antica Porta Marmorea (che si apriva là dove oggi si incrociano via S. Teresa e via S. Tommaso); tuttavia tale ipotesi non è stata sinora confermata da evidenze archeologiche.
Sino ad oggi, l’unico indizio archeologico, peraltro non dirimente, della presenza di un anfiteatro a Torino nell’area suddetta consiste nei resti del grande collettore fognario extraurbano d’epoca romana (visibile nel parcheggio sotterraneo di via Roma), ipoteticamente atto a convogliare e scaricare le acque di un edificio pubblico di rilievo.

Link:
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Bibliografia:
GRAZZI R., Torino romana, Torino, 1981, p. 38
PAPOTTI L., Strutture per spettacolo del Piemonte romano, in “Archeologia in Piemonte”, Torino, 1998 – vol. II – “L’età romana”, pp. 111 e 113
PANERO E., La Città romana in Piemonte, Cavallermaggiore, 2000, p. 184
GRUPPO ARCHEOLOGICO TORINESE, Sulle tracce dell’anfiteatro romano di Torino, in “Guida Archeologica di Torino”, terza edizione, Torino, 2010, vol. II, pp. 47 e seguenti
GRUPPO ARCHEOLOGICO TORINESE, Alla ricerca del monumento perduto, in “Taurasia”, Torino, 2013, pp. 9 e seguenti.

Data compilazione scheda:
26 febbraio 2002 – aggiornamento febbraio 2014

Nome del rilevatore e associazione di appartenenza:
Marina Luongo – Gruppo Archeologico Torinese / Fabrizio Diciotti – Gruppo Archeologico Torinese

TORINO : Abbadia di San Giacomo di Stura

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Storia del sito:
L’origine del monastero-ospedale di S. Giacomo di Stura risale al 1146 quando Pietro Padisio, giureconsulto torinese, fondava l’abbazia assegnando a Vitale, monaco del monastero di Vallombrosa, numerose terre per farvi sorgere un ospedale con la duplice funzione di assistenza ai pellegrini e cura dei lebbrosi. Passati alcuni anni dalla fondazione i vescovi di Torino, i marchesi di Monferrato e i conti di Savoia arricchiscono l’abbazia con cospicue donazioni. Martino V, Papa nel 1420, interviene nella disputa fra i Savoia e i signori del Monferrato aggregando i beni e le proprietà dell’abbazia alla mensa arcivescovile di Torino. Dopo la sentenza papale i vescovi torinesi trasformano la chiesa dell’abbazia in parrocchia, dedicata a san Giacomo.
I monaci controllavano il traghetto sulla Stura: di qui il nome di “regione Barca”. Nel 1700 l’Abbadia divenne la parrocchia della piccola comunità della Barca e il Cardinal Roero, arcivescovo di Torino, fece costruire un bell’arco d’ingresso all’ Hortus Conclusus, rinnovando la chiesa secondo il gusto barocco dell’epoca, come si legge sopra la lapide marmorea, ornata dello stemma cardinalizio con tre ruote, che sovrasta tutt’oggi il portale. L’Abbadia ebbe anche un ruolo importante nella bonifica della zona: infatti si deve all’opera dei monaci la fitta rete di “bialere”, cioè canali, che caratterizzava questa zona, abitata in prevalenza da comunità di lavandai, ancora nell’ 800 e nei primi decenni del ‘900.
Nel 1954 venne dichiarata pericolante e furono sospese le funzioni religiose, nel 1960 fu sconsacrata. In stato di semiabbandono, con strutture fatiscenti, l’abbadia di Stura è oggi proprietà privata in parte adibita a civile abitazione. Dal 2017 sono iniziati i restauri, prima delle facciate e poi degli ambienti interni.

Descrizione del sito:
Le costruzioni cistercensi avevano un tipo di struttura fissato dalle regole dell’ordine: intorno alla chiesa vi era un insieme di chiostri, sale capitolari, dimore, foresterie, laboratori… Il complesso era formato da sette cascine , costituenti un solo corpo di fabbrica, dalla chiesa di S. Giacomo e dalla possente torre campanaria, che fungeva anche da torre di guardia e dalla quale si poteva comunicare con il campanile di Santa Maria Pulcherada a San Mauro. Alta circa 24 metri, è divisa in sei piani da decorazioni in cotto. Del nucleo medievale restano anche le tre absidi della chiesa ed il chiostro, che era a doppia profondità, diviso da una serie di colonne centrali. Qui sono ancora visibili i resti di una meridiana di tipo “canonico”, forse del XVI secolo, molto rara in Italia e probabilmente unica in Piemonte. Essa segnava soltanto le ore della preghiera, che scandivano la giornata della comunità dei religiosi.
Della ristrutturazione settecentesca rimangono la facciata e la navata della chiesa. Della parte ottocentesca restano il recinto con il portale neogotico e l’ampia corte.

Informazioni:

Links:
http://www.museotorino.it/view/s/b9340c48d4df429c877e0c43f33774b0

http://torino.repubblica.it/cronaca/2010/07/22/foto/abbadia_di_stura-5747186/1/

Bibliografia:
AA.VV. Guida Archeologica di Torino, volume II, Gruppo Archeologico Torinese, Torino, 2009, p. 144-145

Fonti:
Fotografia in alto tratta da archivio G.A.T. Fotografie in basso tratte dal sito del Comune di Torino.

Data compilazione scheda:
26/10/2009 – aggiornamento febbraio 2014 – maggio 2020

Nome del rilevatore e associazione di appartenenza:
Carlo Vigo e Livio Lambarelli – G.A.Torinese

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