Trino
Trino (VC) : Abbazia di Lucedio
Storia del sito:
La campagna fra Trino e Vercelli era, intorno al XII secolo, in gran parte incolta a causa della persistenza di ampie zone paludose e di foreste. Una delle regole dei monaci cistercensi era quella che imponeva la fondazione dei monasteri in zone deserte o in mezzo a terre vergini bisognose di essere dissodate o bonificate e messe a coltura. Affidare un territorio ai Cistercensi significava quindi compiere un investimento non solo economico ma anche politico perché si esercitava, attraverso l’abbazia, una forte influenza sulla popolazione. Il territorio a nord di Trino, quasi a ridosso del Po, fu donato ai Cistercensi dal marchese Rainero del Monferrato con l’evidente scopo di poter meglio controllare una strategica zona di confine con il sempre più potente comune di Vercelli. I monaci cistercensi, provenienti dal monastero francese di La Ferté, fondarono nel 1123 l’Abbazia di Lucedio. Il toponimo è attestato già nel 904; pare inoltre che vi fosse già un insediamento romano.
I lavori effettuati dai monaci furono quelli di incanalare i vicini corsi d’acqua e di dissodare la brughiera coltivando il riso e diffondendo la risicoltura in tutto il vercellese. Inizialmente veniva usato come spezia, poi sostituì il grano, molto più caro e raro, soprattutto in quel periodo.
I cistercensi utilizzarono un nuovo modello di sviluppo agricolo, più razionale e programmato, con le “grange” (insediamenti rurali produttivi che godevano di notevole autonomia rispetto alla sede abbaziale che l’aveva costituita, anche se a capo era stato messo un “converso”, cioè un laico che, dopo aver fatto voto di povertà e dopo aver donato i propri beni al monastero, diventava membro della comunità monastica).
Una volta consolidata la proprietà fondiaria, comparirono, anche se ancora sporadicamente, casi di affitto delle terre dell’abbazia (tra il XIV e il XV secolo) fino a che, con la trasformazione dell’abbazia in commenda (1457) affidata a Teodoro Paleologo, figlio del marchese Giangiacomo di Monferrato, venne meno l’autonomia rispetto a nobiltà e curia, che imponevano la riscossione di rendite e pensioni. A partire dal 1552, le grange vennero affittate dietro pagamento di un canone in denaro. Con la soppressione, al culmine del suo splendore, per ordine del Papa Pio VI, il 10 settembre 1784, l’abbazia con le grange lucediesi passò all’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro. Proprietà di Napoleone, durante la dominazione francese e poi, nel 1807, del Principe Borghese (cognato di Napoleone), nel 1818 fu acquistata in società dal Marchese Giovanni Gozani di San Giorgio, dal Marchese Francesco Benso di Cavour e da Luigi Festa.
Nel 1861 Lucedio fu comperata dal Marchese Raffaele de Ferrari duca di Galliera. Egli divenne così Principe di Lucedio in virtù di quanto fatto a vantaggio dello Stato Italiano. Dopo la sua morte il titolo ed i terreni passaro al nipote Marchese Andrea Carega Bertolini che, nel 1937, vendette la proprietà al Conte Paolo Cavalli d’Olivola, padre della attuale proprietaria, la Contessa Rosetta Clara Cavalli d’Olivola Salvadori di Wiesenhoff .
Attualmente il “Principato di Lucedio” è una grande azienda agricola che ingloba i resti dell’antica abbazia: la chiesa Parrocchiale di Santa Maria Assunta, il Campanile, la Chiesa del Popolo, la Sala Capitolare, il Chiostro e il Refettorio. Anticamente aveva anche un mulino, ora scomparso.
Nel 2003-2009, nell’ambito dei progetti finanziati dall’Unione Europea, è stato realizzato il progetto di recupero storico-ambientale della chiesa abbaziale di Santa Maria di Lucedio
Descrizione del sito:
Appena entrati dal cancello principale, a sinistra, c’è la corte del Principato. A destra vi è la chiesa di Santa Maria di Lucedio, mentre alle spalle c’è la Chiesa del Popolo. Questa è la prima chiesa che si incontra entrando dal portone; è detta “del popolo” in quanto adoperata per celebrare le funzioni religiose, mentre quella di S. Maria restava ai monaci per le loro preghiere.
Il CAMPANILE della Chiesa abbaziale è a pianta ottagonale con quattro piani delimitati da una cornice con archetti, i piani inferiori con monofore e l’ultimo con belle bifore, gli ultimi due piani hanno gli archi delle finestre abbelliti da una cornice bicolore.
La sala capitolare è suddivisa in 9 campate da 4 colonne con archi.
Descrizione dei ritrovamenti:
All’interno della chiesa di Santa Maria, nel locale alla base del campanile, a destra dell’altare, è collocata la fronte del sarcofago marmoreo di “Mettia Valeriana”, del II sec. d.C. La lastra, che raffigura due fanciulli che sorreggono la tavola incorniciata con l’iscrizione su tre righe, fu riutilizzata nell’altomedioevo come copertura tombale con l’inserimento di due maniglioni in ferro.
Informazioni:
Gli edifici dell’antica abbazia sono aperti al pubblico tutti i giorni su prenotazione. Tel. 0161 81519 e 0161 81535
Link:
http://www.principatodilucedio.it
Bibliografia:
— Abbazia di Santa Maria di Lucedio, Biblioteca cistercense, Sagep Editori, Genova 2010.
Fonti:
Fotografie tratte nel 2006 dal sito internet: www.principatodilucedio.it.
Data compilazione scheda:
24 marzo 2006 – aggiornamento febbraio 2014
Nome del rilevatore e associazione di appartenenza:
Angela Crosta – Gruppo Archeologico Torinese
Trino (VC) : “Mansio di Rigomagus”
Storia del sito:
I primi scavi vennero iniziati nel novembre-dicembre 1969 dal Sig. Borla (museo di Trino). Dal marzo 1970 al 31 marzo 1973 proseguirono con la collaborazione di Domenico Molzino. La Soprintendenza alle Antichità del Piemonte intervenne con suoi lavori dal 19 febbraio al 12 marzo 1973. L’area di Trino corrispondeva nell’antichità, in base alle distanze fornite dalle fonti antiche, ad una tappa stradale romana sulla importante via pubblica da Ticinum (Pavia) ad Augusta Taurinorum (Torino) attraverso Laumellum (Lomello), Cuttiae (Cozzo) e Quadrata, oggi scomparsa, che si trovava nell’area della confluenza della Dora nel Po.
La tappa o mansio portava il nome di Rigomagus, di origine celtica, che era probabilmente il nome dell’insediamento civile più vicino, e le sue citazioni spaziano tra l’età imperiale (i vasi di Vicarello, che portano l’itinerario del percorso di fine I sec. a.C. – inizi I sec. d.C., dalla Spagna a Roma), il III secolo (l’Itinerario Antoniniano, elenco organizzato forse originariamente per Caracalla, ma trasformato in seguito in lista di tappe relative forse ad una ristrutturazione tetrachica dell’annona, soprattutto del grano) e il IV secolo (l’Itinerario Gerosolimitano o Burdigalense, percorso di un viaggio di pellegrinaggio dalla Gallia a Gerusalemme, datato al 333 d.C.).
Rigomagus è ancora citata in compilazioni geografiche altomedievali, la Cosmographia di un Anonimo Ravennate e la Geographia di Guido, databili tra VII e X secolo ma che utilizzavano materiali precedenti l’invasione longobarda della seconda metà del VI secolo. A questa data, però, il percorso al quale Rigomagus aveva appartenuto come mansio era in disuso, sostituito da una variante nord attraverso Vercelli, attestata da un miliario dedicato ai tetrarchi e ritrovato nell’area di Livorno e, nel Medioevo, dal toponimo strato Liburni.
In seguito il nome di Rigomagus scompare dai documenti e sembra non aver lasciato tracce neppure nella toponomastica locale, come avvenne invece in forma modificata per Quadrata. La menzione più antica di Trino sembra quella di una plebs Triclini inclusa nell’elenco più antico delle pievi vercellesi, databile al X secolo.
Descrizione del sito:
Le mansiones erano stazioni di sosta, poste a una giornata di marcia una dall’altra, lungo le vie consolari romane. Erano vaste costruzioni, atte ad accogliere, per il vitto e il pernottamento, i viaggiatori, i corrieri, le truppe in marcia e le loro cavalcature e i carriaggi, nonché il personale e i servizi annessi alla mansio. Nulla di preciso si sa sulle planimetrie delle mansiones, essendo, queste, tutte sparite.
Non ci sono elementi per una definitiva identificazione della funzione delle strutture scavate a Trino, anche se quella della mansio è stata a lungo la più diffusa. (Robino 2002)
Descrizione dei ritrovamenti:
La pianta mostra un complesso di costruzioni organicamente disposte, secondo un rigoroso senso logico e una visione ben precisa della loro funzione. Gli scavi (eseguiti dal Sig. Borla) hanno messo in luce: – un’area centrale di m 52 x 60, cintata da un muro sostenuto da contrafforti, circondata da abitazioni; – una tettoia larga m 3 circa, la quale correva lungo il perimetro interno del recinto, e che raccoglieva probabilmente laboratori, stalle, magazzini per rifornimento viveri per i viaggiatori e foraggi per gli animali; – due canalette in laterizio, di cui una per l’acqua potabile e l’altra per lo scolo delle acque del cortile; – una strada larga m 3,60 corrente attorno al recinto; – due aule basilicali con abside, contrapposte, all’esterno ovest del recinto; fra le due aule, due camere-bagno e un ambiente con varie canaletto; nel piano sopra le due aule (dalle robuste fondazioni) si presume si trovasse l’abitazione del prepositus della mansio; – altre abitazioni attorno al recinto, attribuibili ad alloggi, osterie e negozi fatti costruire da privati.
Informazioni:
Il sito, non visitabile, è in regione Le Verne che, amministrativamente, si trova a 500 metri oltre il confine del territorio trinese ed entro quello di Tricerro, a circa 4 km a nord di Trino e a 2 a ovest di Tricerro.
Bibliografia:
ROBINO M.,Osservazioni sulla cosiddetta Mansio di Rigomagus a Le Verne, In “Campagna e Paesaggio Nell’Italia Antica” [a cura di Lorenzo Quilici e Stefania Quilici Gigli], L’Erma di Bretschneider, Roma 2002 pp. 241-50.
BORLA, S., 1980, La mansio di Rigomagus, Trino.
NEGRO PONZI MANCINI M.M. (a cura di), 1989, S. Michele di Trino Studi trinesi, n. 8.
BORLA S., 1982, Trino dalla Preistoria al Medioevo, Società di storia e archeologia Tridinum.
Fonti:
Testo tratto dalle pubblicazioni di Borla e Negro Ponzi Mancini.
Data compilazione scheda:
1 ottobre 2003 – aggiornamento febbraio 2014
Nome del rilevatore e associazione di appartenenza:
Federico Vigo – Gruppo Archeologico Torinese