Arona (NO) : Museo Civico Archeologico
Storia del Museo:
Inaugurato nel 1996, il museo raduna collezioni donate da privati e reperti rinvenuti durante scavi sul territorio. Si distinguono per importanza i nuclei di materiali del Lagone a Mercurago risalenti all’età del Bronzo, i resti degli abitati di Castelletto Ticino e Arona della fine dell’età del Bronzo e dell’età del Ferro, i corredi tombali delle necropoli golasecchiane, e quelli del I secolo a.C. della necropoli gallica di Dormelletto, cui si aggiunge il materiale di età romana del basso Verbano.
Nel 2015 è stato realizzato un completo cambiamento dell’esposizione museale.
Descrizione del materiale esposto:
I ritrovamenti attuali non consentono ancora un’approfondita conoscenza della preistoria più antica del basso Verbano. Reperti sporadici rimandano al Paleolitico medio, attestando la presenza di gruppi nomadi di cacciatori neanderthaliani ai piedi del ghiacciaio del Verbano. I primi insediamenti stabili di agricoltori risalgono con probabilità al Neolitico e si concentrano nell’area loessica collinare a nord di Novara.
La documentazione si fa sensibilmente più ricca con l’età dei metalli. L’antica età del Bronzo vede infatti l’occupazione dei terrazzi costieri del basso Verbano, come Meina o Arolo di Leggiuno, sulla sponda lombarda. In particolare, il sistema di piccoli abitati organizzati intorno al Lagone di Mercurago (vedi scheda) documenta per tutta l’età del Bronzo lo sviluppo di un’importante comunità che controllava l’accesso alle vie commerciali di acqua e terra, servendosene per lo scambio ad ampio raggio di beni pregiati come i bottoni in pasta di vetro.
La zona di notevole interesse archeologico, oggi diventata parco, comprende due specchi d’acqua derivanti da torbiere in attività nell’Ottocento. Il lago più piccolo, nel territorio di Oleggio Castello, ha portato alla luce alcuni reperti metallici attualmente conservati nei Musei di Torino e Novara. Ad assumere una certa importanza nel panorama della Paletnologia italiana è però il lago più grande, detto Lagone. È qui, infatti, che dal 1860 si svolsero le prime indagini sulle stazioni palafitticole dell’Italia settentrionale. Fu il geologo torinese Bartolomeo Gastaldi a condurre le ricerche sui resti di una palafitta rinvenuta all’estremità settentrionale della conca, eseguendo calchi di gesso sui reperti lignei deperibili e proseguendo i suoi studi fino al 1866. Una copia di questi calchi è esposta nel museo. I calchi fecero dapprima attribuire le ruote all’antica età del Bronzo, mentre una recente rilettura rimanderebbe a una cronologia più recente, nell’ambito della media-tarda età del Bronzo. La ruota esposta nel museo, la più leggera, farebbe pensare ad un carro a due ruote a traino equino. La presenza sul sito di resti di altre quattro ruote lignee fa supporre l’esistenza in loco di un’officina specializzata nella costruzione di ruote.
Nella tarda età del Bronzo l’occupazione fitta e omogenea del territorio prelude all’età del Ferro, caratterizzata dalla cultura di Golasecca.
È in questa fase che gli insediamenti si spostano dall’area del Lagone, più legata al controllo delle vie di terra dell’alto Verbano, alla zona della Rocca di Arona, raccordo strategico tra navigazione lacustre, vie costiere e vie interne.
Il periodo compreso tra il X e l’VIII secolo a.C. è caratterizzato da una progressiva riorganizzazione del popolamento del basso Verbano, con l’affermarsi definitivo dei centri di Arona e Castelletto Ticino.
L’abitato di Arona si organizza a terrazzi sulle pendici meridionali della Rocca, mantenendo una stretta continuità fino all’età romana, mentre l’abitato di Castelletto Ticino occupa l’intero promontorio proteso sull’ansa del Ticino, raggiungendo le caratteristiche di centro protourbano in età golasecchiana.
Tra VIII e VII secolo a.C. i primi villaggi sparsi di Castelletto si organizzano in un centro sempre più omogeneo articolato tra scali per la navigazione e aree abitative più elevate. Intorno al VI secolo a.C. il centro raccoglie almeno tremila abitanti raggruppati in più nuclei. Tale addensamento demografico, è testimonianza della fortuna legata alla strategia di controllo della via d’acqua.
Sono stati rinvenuti numerosi corredi tombali nel basso Verbano fin dall’VIII secolo a.C. e reperti significativi di questo periodo come vasi biconici, scodelle e fibule sono esposti nelle vetrine.
Le tombe golasecchiane sono sempre a cremazione, inizialmente realizzate con un pozzetto nella nuda terra, con l’urna contenente le ceneri e il bicchiere. Un grosso ciottolo spesso posto sopra il tumulo doveva avere funzione di protezione e di segnacolo. Tra VII e VI secolo a.C., con l’arricchirsi del corredo tombale, si diffonde l’uso di aggiungere protezioni al pozzetto, realizzate con ciottoli, lastre e scaglie di pietra. La cremazione avveniva in un luogo separato da quello della sepoltura, ed è ipotizzabile che il trasporto dell’urna con le ceneri assumesse l’aspetto di una vera e propria processione funebre.
La presenza nelle tombe di Motto Lagone di una probabile inumazione e di una fibula tardo-hallstattiana, sembra suggerire nel V secolo a.C. una situazione transizionale favorita in parte anche dalle prime invasioni galliche. Di questa evoluzione diventa rappresentativa la necropoli di Dormelletto, testimonianza del progressivo assorbimento nelle comunità locali di nuclei gallici transalpini, arrivati forse attraverso le vie dell’Ossola o dell’alto Verbano.
La necropoli fu utilizzata dalle popolazioni locali per circa due secoli, dalla metà del III fino all’inizio del I secolo a.C. Tra le tombe rinvenute 25 sono ad inumazione e 26 ad incinerazione. Tutte le tombe ad inumazione presentano una struttura a fossa rettangolare di circa un metro di profondità con perimetro delimitato da cordoli in ciottoli. Il cadavere era deposto sul fondo e coperto con un leggero strato di terra su cui erano poggiati ciottoli e pietre. Molti dei corredi ritrovati, costituiti da bracciali, anelli, cavigliere e fibule, permettono di riconoscere con certezza alcune deposizioni femminili, mentre in due sole sepolture, databili tra il II e il I secolo a.C., si riscontra un armamento, privo però della spada celtica. L’armamento del guerriero celtico, tra II e I secolo a.C., comprende una lunga e pesante spada, usata solitamente di taglio e portata al fianco. La difesa è affidata ad uno scudo ovale dotato di un umbone metallico centrale e di una maniglia di presa sul retro. Alcune tombe della necropoli di Oleggio hanno restituito la panoplia completa cui si associa un grande coltello per la macellazione e la partizione delle carni nel banchetto.
Residui di tessuto permettono invece una ricostruzione ipotetica dell’abbigliamento femminile tra il III e il II secolo a.C. La disposizione delle fibule al momento del ritrovamento suggerisce la presenza di una sopravveste fissata sul petto e sulle spalle e trattenuta in vita da cinture metalliche, in cuoio e in tessuto. Gli stessi anelli da caviglia, oltre ad una funzione ornamentale, avevano forse anche quella di fissare alla gamba i calzari in cuoio.
Dopo un breve periodo di biritualismo, dal I secolo a.C., si impone nuovamente l’uso di cremare i cadaveri come conseguenza della progressiva romanizzazione delle popolazioni locali. I defunti venivano bruciati su una pira insieme a oggetti frantumati in cerimonie rituali. Le ceneri, accuratamente recuperate, erano poi sepolte in un’altra area della necropoli, in genere custodite in ciotole o piatti.
Le tipologie delle strutture tombali, a cassetta litica, a cassetta laterizia o a semplice fossa, talvolta coperta con ciottoli posti a protezione del cinerario e del corredo, sono quelle ricorrenti in tutte le necropoli galliche rinvenute lungo il corso del Ticino. I corredi si caratterizzano per la presenza di manufatti ceramici, collegati alla mensa e destinati a contenere le offerte di cibo: spiccano numerosi vasi a trottola (vedi scheda museo Verbania) legati alla conservazione del vino e prodotti in abbondanza nel basso Verbano. Non mancano, inoltre, oggetti relativi all’abbigliamento personale del defunto, di cui restano soprattutto numerose fibule in ferro e in bronzo.
I resti di numerose necropoli sembrano richiamare uno sfruttamento non pianificato delle aree sepolcrali, caratterizzate dalla presenza di piccoli raggruppamenti di sepolture da attribuire forse ad affinità sociali o parentali.
Nella fase più antica le tombe erano segnalate da piccoli tumuli di pietre o terra, in seguito da recinti in pietra o da urne in laterizio; rare, invece, le stele funerarie.
Tacito attribuisce il rito incineratorio al costume romano, anche se in area novarese era già praticato dalle genti golasecchiane. Nella cremazione indiretta il defunto era bruciato su ustrinum e le ceneri successivamente raccolte erano deposte in un cinerario o nella nuda terra. Nella cremazione diretta, invece, il corpo adagiato su una barella veniva posto sul rogo in coincidenza della fossa di sepoltura.
In entrambi i casi, il corredo funerario era costituito da oggetti personali del defunto e da vasellame d’uso quotidiano, a volte frantumato per ragioni rituali. Le cerimonie di sepoltura prevedevano spesso la deposizione di cibo e monete, il cosiddetto obolo di Caronte, per assicurare il viaggio nell’aldilà.
Armi e rasoi, arcolai e oggetti d’ornamento permettono spesso di distinguere le tombe maschili da quelle femminili.
Fatta eccezione per i rinvenimenti relativi al municipium di Novaria, le testimonianze archeologiche di età romana riferite ai nuclei abitativi distribuiti sul territorio sono piuttosto sporadiche.
Alcuni resti di edifici sono stati individuati a Gravellona Toce, lungo la strada romana verso l’Ossola. Le strutture murarie testimoniano tecniche costruttive molto semplici con impiego di ciottoli e frammenti di laterizi. Del tutto analoghi a questi sono i due complessi rinvenuti a Gattico, abitati probabilmente dal II al IV secolo d.C., realizzati su terrazzamenti sostenuti da mura di contenimento.
Oggetto di grande interesse per le sue ricchezze, la pianura padana fu attraversata da costanti traffici commerciali che spiegano il ritrovamento in quest’area di produzioni estranee alla cultura locale. La ceramica a vernice nera, per esempio, è di tradizione etrusco-italica: importata da centri padani, dalla fine del I secolo a.C. è sicuramente prodotta anche da officine locali.
La presenza di lucerne, attingitoi e padelle in bronzo di sicura provenienza centroitalica attesta l’apertura dell’area novarese a traffici commerciali con la penisola. Ulteriore conferma di tale ruolo sono i precoci rinvenimenti nei corredi delle necropoli ossolane di alcuni bicchieri ovoidi a pareti sottili, prodotti con ogni probabilità nel II secolo a.C. in Etruria meridionale e in breve esportati in tutta la penisola.
Dalla metà del I secolo d.C. si fa largo una produzione in argilla grigia che sopravvive fino alla seconda metà del II secolo d.C. Una produzione di grande diffusione è quella in terra sigillata (gli artigiani, soprattutto aretini, contrassegnano il vaso con un sigillum recante il nome del vasaio), attestata fino al VI secolo d.C.
Dal I secolo a.C., inoltre, sorgono officine vetrarie, che producono bicchieri, bottiglie, piatti e coppe, tra cui la serie di cestelli in vetro policromo rinvenuti nella necropoli di Gravellona Toce.
Con la fine del II e l’inizio del III secolo d.C., la Cisalpina, da terra di collegamento e scambi con le province settentrionali dell’impero, torna ad essere terra di frontiera, oggetto d’invasioni barbariche provenienti da oriente. L’impero è ormai alle soglie della profonda crisi che lo porterà alla decadenza. Alle produzioni pregiate si sostituiscono quelle colture più povere destinate soprattutto al mercato locale. Benché la documentazione archeologica sia piuttosto scarsa, si può tuttavia supporre che anche il basso Verbano fosse occupato da piccole comunità rurali a prevalente economia agricolo-pastorale di sussistenza, gravitanti attorno ad alcune ville rustiche ancora oggi non documentate appieno.
Note le necropoli di Castelletto Ticino, Comignago, Nebbiuno e Borgomanero, accomunate tutte dal rituale della cremazione indiretta in semplici urne coperte da embrici, senza elementi di corredo. Risultano più ricche le tombe ad inumazione, rito cui si fa ritorno nella prima metà del IV secolo, in concomitanza con la diffusione del cristianesimo.
Nel museo è stata ricostruita una tomba cappuccina.
Diffuso già dalla fine del VII secolo a.C. nelle città greche, l’uso della moneta rimase a lungo estraneo alle popolazioni dell’Italia antica. Realizzata in metallo pregiato, la moneta fu spesso utilizzata per il soldo dei mercenari italici e celti, senza sostituirsi del tutto al baratto commerciale. Le prime emissioni nell’Italia settentrionale furono le dramme padane d’argento, imitazione delle dracme della colonia greca di Massalìa (Marsiglia) del IV-I secolo a.C. È solo dopo l’89 a.C. che, con la conquista romana, l’uso della moneta si diffonde in maniera capillare. Ne sono una testimonianza i numerosi assi romano-repubblicani rinvenuti nei corredi tombali tardo-celtici di Dormelletto (II-I secolo a.C.), qui deposti secondo il rituale romano dell’obolo per Caronte.
Tra i pezzi esposti nel museo sono da notare il sesterzio di Conmodo che celebra la divinizzazione di Marco Aurelio portato in cielo da un’aquila e l’antoniniano di Quitillo con la Fides militare.
Informazioni:
Tel. 0322 48294 – email archeomuseo@comune.arona.no.it
Link:
http://www.archeomuseo.it
Bibliografia:
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GAMBARI-SPAGNOLO, 1997, Il Civico Museo Archeologico di Arona, Regione Piemonte
Fonti:
Fotografia tratta nel 2005 dal sito sopra indicato.
Data compilazione scheda:
13/02/2005 – aggiornamento marzo 2014
Nome del rilevatore e associazione di appartenenza:
Carlo Vigo – G. A. Torinese