Torino città

TORINO : Abbadia di San Giacomo di Stura

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Storia del sito:
L’origine del monastero-ospedale di S. Giacomo di Stura risale al 1146 quando Pietro Padisio, giureconsulto torinese, fondava l’abbazia assegnando a Vitale, monaco del monastero di Vallombrosa, numerose terre per farvi sorgere un ospedale con la duplice funzione di assistenza ai pellegrini e cura dei lebbrosi. Passati alcuni anni dalla fondazione i vescovi di Torino, i marchesi di Monferrato e i conti di Savoia arricchiscono l’abbazia con cospicue donazioni. Martino V, Papa nel 1420, interviene nella disputa fra i Savoia e i signori del Monferrato aggregando i beni e le proprietà dell’abbazia alla mensa arcivescovile di Torino. Dopo la sentenza papale i vescovi torinesi trasformano la chiesa dell’abbazia in parrocchia, dedicata a san Giacomo.
I monaci controllavano il traghetto sulla Stura: di qui il nome di “regione Barca”. Nel 1700 l’Abbadia divenne la parrocchia della piccola comunità della Barca e il Cardinal Roero, arcivescovo di Torino, fece costruire un bell’arco d’ingresso all’ Hortus Conclusus, rinnovando la chiesa secondo il gusto barocco dell’epoca, come si legge sopra la lapide marmorea, ornata dello stemma cardinalizio con tre ruote, che sovrasta tutt’oggi il portale. L’Abbadia ebbe anche un ruolo importante nella bonifica della zona: infatti si deve all’opera dei monaci la fitta rete di “bialere”, cioè canali, che caratterizzava questa zona, abitata in prevalenza da comunità di lavandai, ancora nell’ 800 e nei primi decenni del ‘900.
Nel 1954 venne dichiarata pericolante e furono sospese le funzioni religiose, nel 1960 fu sconsacrata. In stato di semiabbandono, con strutture fatiscenti, l’abbadia di Stura è oggi proprietà privata in parte adibita a civile abitazione. Dal 2017 sono iniziati i restauri, prima delle facciate e poi degli ambienti interni.

Descrizione del sito:
Le costruzioni cistercensi avevano un tipo di struttura fissato dalle regole dell’ordine: intorno alla chiesa vi era un insieme di chiostri, sale capitolari, dimore, foresterie, laboratori… Il complesso era formato da sette cascine , costituenti un solo corpo di fabbrica, dalla chiesa di S. Giacomo e dalla possente torre campanaria, che fungeva anche da torre di guardia e dalla quale si poteva comunicare con il campanile di Santa Maria Pulcherada a San Mauro. Alta circa 24 metri, è divisa in sei piani da decorazioni in cotto. Del nucleo medievale restano anche le tre absidi della chiesa ed il chiostro, che era a doppia profondità, diviso da una serie di colonne centrali. Qui sono ancora visibili i resti di una meridiana di tipo “canonico”, forse del XVI secolo, molto rara in Italia e probabilmente unica in Piemonte. Essa segnava soltanto le ore della preghiera, che scandivano la giornata della comunità dei religiosi.
Della ristrutturazione settecentesca rimangono la facciata e la navata della chiesa. Della parte ottocentesca restano il recinto con il portale neogotico e l’ampia corte.

Informazioni:

Links:
http://www.museotorino.it/view/s/b9340c48d4df429c877e0c43f33774b0

http://torino.repubblica.it/cronaca/2010/07/22/foto/abbadia_di_stura-5747186/1/

Bibliografia:
AA.VV. Guida Archeologica di Torino, volume II, Gruppo Archeologico Torinese, Torino, 2009, p. 144-145

Fonti:
Fotografia in alto tratta da archivio G.A.T. Fotografie in basso tratte dal sito del Comune di Torino.

Data compilazione scheda:
26/10/2009 – aggiornamento febbraio 2014 – maggio 2020

Nome del rilevatore e associazione di appartenenza:
Carlo Vigo e Livio Lambarelli – G.A.Torinese

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TORINO : “Augusta Taurinorum” – il sistema idrico della città romana.

Descrizione del sito e dei ritrovamenti:
Per quanto riguarda l’acquedotto, alle lacune archeologiche si affianca l’incertezza circa la sua stessa esistenza, a differenza di quanto riscontrato nella vicina Chieri (v. scheda). È in effetti probabile che almeno inizialmente l’abbondante disponibilità di acqua, soprattutto fluviale, abbia consentito l’approvvigionamento idrico tramite pozzi scavati nel sottosuolo o attingendo direttamente dalla Dora e dal Po utilizzando una rete di canalizzazioni, forse con il supporto di “castella aquarum” (serbatoi) situati in posizione elevata. Resti di pozzi, di cui forse qualcuno pubblico, sono stati ritrovati, nei primi anni del 1900, nell’insula compresa tra via S. Francesco d’Assisi, via Botero, via Monte di Pietà e via Barbaroux, inoltre tra via S. Teresa e via XX Settembre, in via Tasso e all’incrocio tra via Corte d’Appello e via delle Orfane. Tuttavia, secondo alcuni studiosi, antiche stampe e disegni riporterebbero particolari tali da suggerire la presenza di un acquedotto il cui tratto urbano iniziava nei pressi della porta urbica occidentale (all’incrocio tra via Garibaldi e via della Consolata), dopo aver prelevato l’acqua dalla Dora. Quanto alle evidenze archeologiche, si registra solo il ritrovamento, nel 1884, di tre fistulae aquariae (tubi) in piombo sotto l’atrio di Palazzo Madama, in corrispondenza di uno dei fornici della porta orientale, mentre un altro tratto è stato ritrovato nell’area dei Giardini Reali. L’ubicazione degli scarni reperti ha fatto supporre che la rete idrica proseguisse anche nell’area extraurbana ad est, verso il Po, ipotesi, del resto, congruente con quanto è emerso dagli studi sulla rete fognaria, nel complesso la parte più nota dell’intero processo distributivo grazie ai numerosi rinvenimenti avvenuti sino ai nostri giorni, tra cui quelli delle vie S. Chiara, Milano, Porta Palatina, S. Francesco d’Assisi, S. Tommaso, Barbaroux, S. Maria, Bertola (v. anche scheda su anfiteatro). In particolare, la scoperta, nel 1902, dell’incrocio dei canali di scarico fra cardo e decumanus maximi ha contribuito in modo sostanziale alla comprensione dell’impostazione del sistema fognario. Le condutture, “alte in media m. 1,60 e larghe 0,60, coperte con botti in concreto” (Grazzi), correvano sotto le strade cittadine e ne seguivano il percorso, sfruttando al meglio la morfologia del territorio: infatti convogliavano le acque prevalentemente in direzione del Po, verso il quale si ha una più marcata inclinazione, con conseguente orientamento ovest-est, coincidente con l’asse dei decumani; la maggior parte dei collettori fognari dei cardines si gettava in quelli dei decumani. Sono peraltro note alcune eccezioni: ad esempio il collettore scoperto nel 1938 “sul lato orientale di piazza S. Carlo, diagonalmente a via Roma, all’altezza di via Arcivescovado”, pur confermando il Po come punto d’arrivo, presentava una “direzione obliqua alle mura meridionali” (citazioni da Grazzi); andava invece in direzione della Dora il piccolo scarico che fuoriesce dalle mura presso la torre angolare nord-est adiacente alla Chiesa della Consolata ed ancora oggi visibile. Inoltre, come ad esempio verificato presso la terza torre a sud di Palazzo Madama, il percorso delle condotte, solitamente in asse con le strade cittadine, veniva deviato in diagonale per evitare l’ostacolo sotterraneo dei basamenti delle torri poste lungo le mura in corrispondenza dei medesimi assi viari e forse anche per rallentare la velocità di deflusso.
Tra i reperti di maggior interesse vanno anche segnalati il chiusino quadrato all’angolo di via Botero e via Barbaroux, mediante il quale dalla strada si accedeva alle fogne, ed il tratto di fognatura divisa in due tronconi visibile nel parcheggio sotterraneo di via Roma, probabilmente un collettore di più sistemi fognari, utilizzato anche per drenare la zona sud.
Il pilastro romano in via Botero, attraversata via Barbaroux, è stato smontato a fine agosto del 2010, nell’ambito dei lavori per la ricostruzione della porzione di isolato; si è potuto stabilire che le sue fondamenta non proseguivano oltre il livello stradale attuale e che l’intero manufatto è il risultato di un assemblamento tardo, seppure realizzato con blocchi di epoca romana probabilmente pertinenti a un acquedotto non meglio identificato.
Tutti questi elementi concorrono a definire una tale organizzazione e capillarità della rete di smaltimento delle acque da far presupporre l’esistenza di un sistema distributivo di una certa complessità, imperniato su un vero e proprio acquedotto. A prescindere dalle soluzioni tecniche adottate, le acque, seguendo la norma delle città romane, avrebbero alimentato soprattutto fontane ed edifici pubblici, quali le terme, anche se alcune abitazioni private risultano dotate di collegamenti diretti con il sistema fognario, come riscontrato in via Botero.

Bibliografia:
GRAZZI R., Torino romana, Torino, 1981, pp. 22-25
SCALVA G., Gli acquedotti, p. 94, in “Archeologia in Piemonte”, Torino, 1998 – vol. II – “L’età romana”
PANERO E., La Città romana in Piemonte, Cavallermaggiore, 2000, p. 185
GRUPPO ARCHEOLOGICO TORINESE, Guida Archeologica di Torino, Savigliano (CN), 2010, Terza Ediz., 2° vol., pp. 22-25 e volume 1°, p. 119 – nota 120 – Aggiornamento

Data compilazione scheda:
26 febbraio 2002 – aggirnamento marzo 2014

Nome del rilevatore e associazione di appartenenza:
Marina Luongo – Gruppo Archeologico Torinese

TORINO : “Augusta Taurinorum” – il foro romano.

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Descrizione del sito e dei ritrovamenti:
Gli studiosi generalmente concordano nel collocare il foro ipoteticamente nell’area attualmente occupata dalle piazze Palazzo di Città e Corpus Domini, vale a dire, secondo i canoni urbanistici delle colonie romane, all’incrocio del Decumanus Maximus (via Garibaldi) con il Cardo Maximus (via Porta Palatina, via S. Tommaso). Si ritiene che non occupasse il centro esatto della pianta romana, ma la metà del quadrante nord-occidentale rivolta verso il centro.

Tale collocazione sembrerebbe comprovata da una serie di indizi, a partire dalla forma rettangolare e non quadrata (di ca. 73 x 80 m invece di 75 m per lato) della prima fila di isolati immediatamente a nord del decumano massimo, tra via S. Domenico, via IV Marzo, Piazza Palazzo di Città, via Garibaldi, via Porta Palatina. Un’anomalia nella maglia regolare di questa zona del centro storico che ha fatto pensare ad una “destinazione speciale” (Grazzi) di quelle insulae, è riportata anche nelle più antiche testimonianze cartografiche, quali le piante della città disegnate nel XVI e XVII sec. da Caracha e Borgonio. Si è pertanto presupposto nell’area uno spazio di vaste dimensioni a destinazione pubblica, corrispondente a 6-8 isolati circa, identificabile con un foro sviluppato in senso est-ovest ed in stretto collegamento con il sistema stradale, in particolare con il decumano massimo, proseguimento urbano della via internazionale delle Gallie. Quanto alla struttura, sembrerebbe trattarsi del tipico foro rettangolare corredato di monumenti sui lati brevi, derivato dallo scenografico modello vitruviano, proprio delle città italiche ma attestato anche nelle colonie galliche. Nella stessa zona si registra il rinvenimento di reperti archeologici sin dalla metà dell’800, dal mosaico di via Berchet, oggi perduto, ai tratti di un muro largo 97 cm in opus listatum all’interno del Cortile del Burro, dentro Palazzo di Città, forse pertinente ad un edificio pubblico di rilievo, ai frammenti di statue bronzee, ritenuti resti di un monumento equestre. Inoltre vi sono probabili riferimenti alla presenza della pavimentazione romana: fino al XVI sec. presso la chiesa di S. Silvestro (ora Corpus Domini e S. Spirito) e nella stessa piazza Palazzo di Città definita, fin dal XIII sec., “forum solatum”. Ad ulteriore conferma dell’ubicazione del foro è stata evidenziata, seppure con qualche riserva, la continuità d’uso della succitata area pubblica sino ad oggi, sotto il profilo politico, amministrativo ed anche commerciale se si considera che per secoli ha ospitato i maggiori mercati della città: quello degli ortaggi (nella piazza delle Erbe, precedente nome della piazza Palazzo di Città) e quello delle granaglie (nella piazza di S. Silvestro, detta proprio del Grano, ora Corpus Domini), quello del burro, che ha dato il nome al cortile già menzionato (nella piazza di S. Benigno, sul sagrato dell’omonima chiesa, ormai scomparsa). È stata altresì ipotizzata l’esistenza di fori minori: interessante, in merito, un riferimento toponomastico, il titolo medievale “de Platea” (oggi “di Piazza”) attribuito alla chiesa di S. Maria, sita nella via omonima, nel quale si può ravvisare la connessione con una vasta area lastricata. A tale indizio si aggiunge il riscontro archeologico, vale a dire i reperti ritrovati, in varie occasioni, tra le vie Bertola, S. Maria, Stampatori e S. Dalmazzo, tra cui statue, un’ara votiva dedicata nel 300 d.C. da Marco Valerio Lisimaco, un titolo onorario del 65 d.C. dedicato a Seneca e un tesoretto formato da diversi tipi di monete, datate a partire dal 261 d.C.

Bibliografia:
GRAZZI R., Torino romana, Torino, 1981, pp. 18-20
TORELLI M., Urbanistica e architettura nel Piemonte romano, in “Archeologia in Piemonte”, Torino, 1998 – vol. II – “L’età romana”, p. 38
PANERO E., La Città romana in Piemonte, Cavallermaggiore, 2000, pp. 180-182
GRUPPO ARCHEOLOGICO TORINESE, Guida Archeologica di Torino, Torino, 1996, Seconda Edizione, p. 35 e pp. 38-39

Data compilazione scheda:
26 febbraio 2002 – aggiornam. maggio 2014

Nome del rilevatore e associazione di appartenenza:
Marina Luongo – Gruppo Archeologico Torinese